miércoles, 25 de agosto de 2010

QUATTRO SENSI DI “FILOSOFIA CRISTIANA”:

(Andrea Di Maio)
§ 1. PRIMA TESI. Sulla questione della filosofia cristiana, e in particolare alla domanda se sia filosoficamente e teologicamente possibile una filosofia caratterizzata dal cristianesimo, si adducono (da parte sia cristiana, sia non cristiana) argomenti ingenuamente favorevoli o contrari, ma alcune delle obiezioni (da parte non cristiana)mettono radicalmente in discussione la possibilità stessa per un credente di ragionare liberamente. Tuttavia, non la “filosofia cristiana” in sé, ma la polemica che se ne è fatta è il risultato di un malinteso, superabile definendo meglio il problema.
La questione verte sulla “filosofia cristiana”: con tale espressione, coniata in età
patristica per indicare la novità cristiana rispetto alla tradizione ellenica nella ricerca della sapienza, si è soliti esprimere l’eventuale caratterizzazione cristiana del pensiero 1.E ci si domanda se una tale filosofia sia realmente possibile e utile (e cioè legittima tanto per la filosofia quanto per il cristianesimo).
Preannunciata da alcune polemiche ottocentesche, fu soprattutto negli anni Trenta
del Novecento che si è sviluppata la discussione sulla legittimità di una tale “filosofia cristiana”.
Da un punto di vista cristiano, riprendendo la diffidenza deuteropaolina per la
“vana filosofia secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo” e l’opposizione
patristica fra Atene e Gerusalemme, c’è chi ha fatto notare la separazione tra la sfera della filosofia e quella del cristianesimo: se è filosofia non è cristiana e se è cristiana non è filosofia 2; viceversa, c’è chi ha insistito che la filosofia è filosofia e basta.
Così Tertulliano afferma che non è bene cercare se non ciò che è bene trovare e che
la ricerca è finalizzata alla fede, e che una volta trovato, non si deve cercare oltre, come pretendono di fare gli eretici (gnostici), ispirati dalla vana curiosità della filosofia 3. Viceversa,gli Alessandrini ammettono la possibilità di una gnosi cristiana 4.Quanto poi a una “filosofia cristiana” essa, così come una – certamente improponibile
– aritmetica cristiana 5, non sarebbe che un “ferro di legno” (cioè una contradictio
in terminis), una “quadratura del cerchio” (cioè un tentativo vano) e insomma il risultato di un malinteso 6.Questo per l’incommensurabilità di ragione e fede, la quale riterrebbe follia la ricerca della ragione e si presenterebbe essa stessa come follia a quest’ultima.
«Fede e sapere non vanno d’accordo nello stesso cervello: essi vi stanno come lupo
e pecora nella stessa gabbia» 7.
In risposta alla questione va detto che tuttavia, a ben intendere, non l’idea di
“filosofia cristiana” ma la discussione critica che ne è stata fatta sembra il risultato di un
malinteso, che si può superare solo definendo adeguatamente ciò di cui si tratta.
Per “filosofia cristiana” si intende in senso minimale la storia e la fenomenologia
(in diacronia e sincronia) delle dottrine filosofiche elaborate dai cristiani (Philosophia
Christianorum); in senso lato, filosofia della religione applicata al cristianesimo (Philosophia
Christianismi, col genitivo oggettivo); in senso stretto, il complesso di “intra-
strutture filosofiche” implicite nel messaggio cristiano (Philosophia Christianismi,
col genitivo soggettivo); in senso forte, una filosofia specificamente cristiana pensabile
filosoficamente “supposita veritate revelationis”.
Non esiste alcun motivo per rifiutare l’idea di una filosofia cristiana nei primi tre
sensi; nel quarto senso, invece, tale speculazione potrà essere accolta come filosofica solo in modo paradossale.
3 Cf TERTULLIANO De praescriptione haereticorum, 7.12-13; 8.1; 9.4; 14.9; De anima, 2.7; cf Giuseppe VISONÀ,
Gli scritti antieretici, § 3 [«“Cercate e troverete”. La controversia sul quaerere»], in Enrico DAL COVOLO, Storia
della teologia. 1. Dalle origini a Bernardo di Chiaravalle, Dehoniane, Roma - Bologna 1995, 72-73 (e bibliografia
citata).
4 In particolare, ORIGENE [ad esempio in In Canticum, 1.7] interpreta la ricerca dell’amata per l’Amato come la
ricerca dell’anima per la sapienza mistica; cf Giuseppe TURBESSI, Quaerere Deum: la ricerca di Dio in antichi testi
cristiani, «Rivista di Ascetica e Mistica» 1964, p. 240-255.
5 Così Arthur SCHOPENHAUER, Parerga e Paralipomena, vol. 1, “Sulla filosofia delle università”, trad. it. a cura
di Giorgio Colli, Adelphi, Milano 1981, p. 204: «Altri poi fondono filosofia e religione in un centauro da loro chiamato
filosofia della religione e sono soliti inoltre insegnare che la religione e la filosofia sono propriamente la stessa
cosa. […]. Altri ancora non fanno troppi complimenti e e parlano addirittura di una filosofia cristiana; ciò equivale
per così dire a parlare di una aritmetica cristiana, che consideri come pari il 5». C’è da dire che qui l’obiettivo polemico
era la filosofia idealistica che intendeva assorbire speculativamente il cristianesimo. Tuttavia altrove Schopenhauer
ribadisce l’alternativa: “O si ragiona o si crede”.
6 Heidegger apriva nel 1935 la sua Introduzione alla metafisica con la domanda metafisica fondamentale:
“Perché in generale vi è l’essente e non il nulla?”; e ribadiva che l’affermazione biblica “In principio Dio creò il cielo
e la terra” non può esserne la risposta, non avendo alcun rapporto con la domanda: «Quanto propriamente viene richiesto
nella nostra domanda è per la fede una follia: è in tale follia che consiste la filosofia; quanto poi a una
‘filosofia cristiana’ essa non è che una specie di ferro ligneo e un malinteso». Heidegger riteneva la filosofia non solo
estranea ma rovinosa per la fede. In questa linea va intesa anche la sua critica verso l’ontoteologia (l’uso della nozione
di essere, essenzialmente filosofica, per la concezione di Dio).
7 Così Arthur SCHOPENHAUER: dalla silloge, compilata da Franco Volpi utilizzando testi pubblicati e postumi,
L’arte di insultare, Adelphi, Milano 1999, p. 62 (cf anche Parerga, vol. 2, § 175): «Fede e sapere non vanno
d’accordo nello stesso cervello: essi vi stanno come lupo e pecora nella stessa gabbia; e il sapere è il lupo che minaccia
di divorare il suo vicino. Il sapere è fatto di materia più dura della fede, di modo che, quando cozzano fra loro, la
fede si spezza».
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§ 2. SECONDA TESI. Per ‘filosofia cristiana’ si intende progressivamente: la storia e
la fenomenologia della filosofia dei cristiani; la filosofia della religione cristiana;
l’ermeneutica e sistematica razionale delle intra-strutture filosofiche del Cristianesimo;
e infine il senso cristiano della filosofia.
Intendiamo ‘filosofia cristiana’ in più sensi, analogicamente (per prius et posterius)
connessi.
1. Innanzitutto, per ‘filosofia cristiana’ si intende in senso lato e immediato (cioè
storico e fenomenologico) la philosophia Christianorum (col genitivo soggettivo), ossia
la filosofia elaborata da quanti per fede o per cultura sono cristiani o perlomeno “non
possono non dirsi” tali.
La “filosofia cristiana” così intesa non solo è data come fenomeno storico, ma possiede anche una
sua giustificazione teoretica. Infatti, poiché “prima si vive, e solo poi si filosofa”, non si dà filosofia a
prescindere dalle condizioni vitali della conoscenza; pertanto, poiché la fede è – per i cristiani filosofi –
motivo d’ispirazione e riflessione (dal punto di vista psicologico), legame d’interazione e tradizione (dal
punto di vista sociologico), ma soprattutto “nuovo orizzonte di senso” 8 (dal punto di vista esistenziale),
non può non esistere una “filosofia dei cristiani”, riscontrabile nella storia e nella fenomenologia dell’influsso
esercitato dal cristianesimo sul filosofare. In questo senso si può anche individuare una specificità
cattolica o protestante, latina o orientale, e perfino una francescana o domenicana o altro ancora… del
pensare.
Alla philosophia Christianorum può essere parzialmente assimilata la filosofia di quanti, pur non
essendo propriamente credenti in Cristo o appartenenti alla Chiesa, risentono tuttavia del suo messaggio,
al punto da ammettere loro stessi di “non potersi non dire cristiani” 9.
In tale prospettiva, la filosofia cristiana (come del resto il cristianesimo stesso) è
trasversale alle diverse epoche storiche e non si può ridurre a quella particolare forma
(per quanto emblematica) che fu la filosofia medievale (patristica e scolastica).
Nella storia si sono susseguite finora quattro differenti posizioni del cristianesimo rispetto al
“mondo”: il “regime di dispersione” a mo’ di lievito nella pasta, proprio del cristianesimo primitivo; il
“regime di cristianità”, in cui il cristianesimo è venuto a coincidere con la società formando la respublica
Christiana post-costantiniana e medievale; il “regime di modernità”, in cui la riscoperta di una legittima
laicità e secolarità si è spesso attuata in polemica contro la Chiesa e la trascendenza; e infine la situazione
della società attuale, definita post-moderna, che pur non essendo più cristiana, però pone ai cristiani le
sfide della secolarità, del senso della vita e della comunicazione. Ogni epoca infatti pone alcune sfide caratteristiche,
a cui si possono pure dare risposte diverse e contrarie; ma poiché “i contrari sono nel medesimo
genere”, la diversità delle risposte sarà sempre all’interno di un medesimo orizzonte culturale,
quello appunto offerto dalla stessa sfida. È in questo senso che non possiamo mai non essere contemporanei,
perché anche se non condividessimo le risposte che i più rinomati alfieri della contemporaneità
hanno dato alle sfide odierne, nondimeno queste ultime resterebbero anche le nostre sfide. La posizione
della filosofia cristiana nei confronti della modernità e della post-modernità non è pertanto di opposizione
alternativa, ma di mutua implicazione: non si tratta infatti di scegliere tra cristianesimo e modernità (o
post-modernità), ma semmai di declinare il cristianesimo nella modernità (o post-modernità).
2. Parallelamente, per “filosofia cristiana” si intende in senso lato ma mediato (cioè
sistematico) la philosophia Christianismi (col genitivo oggettivo), scilicet de Christianismo,
ossia la filosofia che ha come oggetto il cristianesimo.
8 Cf Peter HENRICI, Aufbrüche christlichen Denkens, Einsiedeln, Johannes Verlag 1978, p. 24. In questa direzione
va Carlo HUBER (nel suo volume Vegliate dunque. La costituzione della realtà. Introduzione al pensiero trascendentale,
Cittadella, Assisi 1999), interpretando la «nuova creatura» [2Cor 5,17] (costituita da chi è «in Cristo») come
la ricostruzione della realtà nel nuovo orizzonte della fede.
9 Secondo l’espressione con cui Benedetto CROCE ha intitolato una sua celebre conferenza, poi pubblicata.
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Si tratta dunque di una filosofia “seconda” o “al genitivo”: la “filosofia della “religione cristiana”,
ossia quella parte della “filosofia della religione” che riflette sui problemi posti alla filosofia dal cristianesimo
(filosoficamente compreso come “religione”, senza cioè pronunciarsi sulla sua pretesa di essere “la
via” – rivelata da Dio – di salvezza). La filosofia, che per sua natura vuole comprendere tutto, non può
omettere di “esplorare i suoi propri confini”, né lasciare fuori di sé il cristianesimo e la sua teologia. Il
cristianesimo “fa pensare” sia per il suo rapporto di originalità senza rotture e continuità senza riduzioni
con la filosofia e le religioni non cristiane, sia perché il centro del cristianesimo (Cristo) dà alla filosofia
l’idea chiave di un “universale concreto” in cui si realizza l’“unione senza confusione” di infinito e finito,
Dio e Uomo. Pertanto la filosofia della religione cristiana si presenta non solo come riflessione filosofica
sui singoli aspetti del cristianesimo (il suo linguaggio, la sua logica, le sue forme culturali e rituali, la sua
teologia…), ma soprattutto come “cristologia filosofica” (a cui si connette una pneumatologia e
un’ecclesiologia) 10, ossia, più in generale, come “cristianologia” filosofica: riflessione che può essere
condotta egualmente da filosofi credenti e non credenti in Cristo.
La “filosofia (della religione) cristiana” e la “teologia (cristiana) fondamentale” studiano entrambe
il messaggio cristiano (con la sua “pretesa” d’essere rivelato), indagandone però rispettivamente le condizioni
di pensabilità (e possibilità) e le condizioni di credibilità, e costituendo così l’“interfaccia” 11 tra la
filosofia simpliciter e la teologia cristiana; questo richiede l’uso non soltanto di “ragioni dimostrative” (a
partire da primi principi condivisi da tutti), ma anche di “ragioni solo probabili” 12 (a partire da principi di
fatto non condivisi e dall’esperienza di fede, assolutamente personale).
3. Poi, per ‘filosofia cristiana’ si intende in senso stretto e proprio la philosophia
Christianismi (col genitivo possessivo o soggettivo), scilicet in Christianismo exercita,
ossia la filosofia che è implicita nel cristianesimo stesso e di cui il cristianesimo è latore.
La filosofia è infatti presente nel cristianesimo non solo in quanto importata dall’esterno, o come
infra-struttura (assunta e fatta propria dal messaggio cristiano 13), oppure come sovra-struttura (applicata
al messaggio cristiano così da costruire la “teologia come scienza”), ma anche in quanto generata dal suo
interno, ovvero come intra-struttura 14.
Ebbene, queste strutture interne al cristianesimo possono “far pensare” il filosofo; di converso, la riflessione
del filosofo su di esse può far pensare più a fondo il teologo 15.
10 Cf Xavier TILLIETTE, Filosofi davanti a Cristo, Queriniana, Brescia 1989; Le Christ des philosophes. Du
Maître de sagesse au divin Témoin, Namur, Culture et Verité 1993 (per una presentazione concisa del tema, cf Sergio
PISA, Filosofia e cristologia. Una lettura del pensiero di Xavier Tilliette, in «Filosofia» 1997, p. 133-153); La settimana
santa dei filosofi, Morcelliana, Brescia 1993; Il Cristo dei non-credenti e altri saggi di filosofia cristiana,
AVE, Roma 1994; Il Cristo della filosofia. Prolegomeni a una cristologia filosofica, Morcelliana, Brescia 1997; cf
anche Eucharistie et philosophie, Paris, Institut Catholique 1983; La Chiesa nella filosofia, trad. it., dal manoscritto,
di Giuliano Sansonetti, Morcelliana, Brescia 2003; Che cos’è cristologia filosofica?, Morcelliana, Brescia, in via di
pubblicazione nel 2003.
11 Secondo una espressione adoperata oralmente da Xavier Tilliette; per il rapporto con la teologia fondamentale
cf Karl RAHNER (con il contributo di Johann Baptist Metz), Hörer des Wortes, München, Kösel 21963; trad. it., Uditori
della parola, Roma, Borla 1988.
12 Secondo l’espressione di Tommaso in SCG 1.9.5-6.
13 Così, ad esempio, il “culto razionale” di cui parla Paolo [in At 17,22-29 e Rm 12,1-2] richiama e riadatta dottrine
filosofiche previe.
14 Questa considerazione rielabora una suggestione di Henri BOUILLARD, Logique de la foi, Paris, Aubier 1964,
p. 121 (in nostra traduzione): la teologia naturale è «l’intrastruttura (e non propriamente l’infrastruttura) razionale
della teologia cristiana».
15 Cf Peter HENRICI, La dramatique entre l’esthétique et la logique, in Pierre Philippe DRUET (ED.), Pour une
philosophie chrétienne. Philosophie et Théologie, Paris - Namur, Lethellieux - Culture et Verité 1984 (in nostra traduzione;
il testo originale trattavia in particolare della struttura della trilogia balthasariana): «la struttura stessa
[…], dettata da ragioni d’ordine strettamente teologico, “dà da pensare” (o può dar da pensare) alla
filosofia; e forse, allora, all’inverso, le […] riflessioni di un filosofo […] potranno “dar da pensare” ai teologi stessi».
Si noti che la funzione di “dar da pensare” (secondo la celebre formula di Ricoeur) viene trasposta dalla metafora letteraria
alla struttura della teologia.
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Per quanto riguarda le sue infrastrutture, il paradosso del cristianesimo è proprio
questo: da una parte, secondo la celebre affermazione della antichissima Lettera a Diogneto,
i cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per lingua né per cultura, ma
d’altra parte il cristianesimo è legato indissolubilmente ad alcune lingue e culture, per
la sua fondamentale storicità, che gli deriva dalla fede nell’incarnazione del Verbo e
dalla conseguente communicatio idiomatum (secondo la quale Dio stesso in Gesù ha
parlato aramaico). Riprendendo e sviluppando una suggestiva immagine bonaventuriana,
possiamo dire che le tre lingue (e culture) ebraica, greca e latina, in cui fu composta
l’iscrizione posta sulla croce di Gesù, sono rimaste definitivamente inchiodate al suo
Mistero 16.
Chi perseguisse dunque una radicale de-ellenizzazione del cristianesimo si comporterebbe come
quel restauratore che, per togliere le incrostazioni successive da un dipinto, raschiasse via anche parti
dell’originale. Infatti, la cultura greca non si è semplicemente sovrapposta al messaggio biblico, ma ne è
entrata in un certo senso a far parte, se consideriamo gli influssi culturali greci nel libro della Sapienza o
nelle lettere paoline o nel prologo giovanneo; tanto più che molto spesso l’opera di de-ellenizzazione finisce
per sostituire surrettiziamente alla cultura greca qualche altra cultura o filosofia. E se i primi pensatori
cristiani hanno adoperato il pensiero greco pagano nelle proprie sintesi teologiche, questo non è
stato soltanto per uno sforzo di interculturazione con chi non crede, ma anche perché le ragioni e una
certa autorevolezza dei filosofi greci erano state in qualche modo e in certa misura assunte dalla Scrittura
sacra, come nel discorso di Paolo all’Areopago 17.
La “filosofia cristiana” in senso stretto consiste insomma implicitamente nell’insieme
delle “intra-strutture filosofiche” del cristianesimo ed esplicitamente nella loro razionale
interpretazione e sistemazione.
Tali strutture sono implicite nel cristianesimo e nei suoi testi fondamentali non nel senso che vi siano
sottintese (quasi vi fossero dette sottovoce o in cifra), ma in quanto vi sono concretamente (e non
sempre consapevolmente) esercitate.
Più precisamente possiamo distinguere una filosofia cristiana implicita nel vissuto
stesso del cristianesimo (philosophia Christiana exercita), e in particolare nella mistica;
e una “filosofia cristiana” in esercizio (philosophia Christiana professa in actu exercito)
nella filosofia dei “cristiani filosofi”; e infine una filosofia cristiana tematizzata e riflessa
(philosophia Christiana professa in actu signato), che all’interno delle precedenti riconosce
e discute le intra-strutture filosofiche, elaborandone una ermeneutica e sistematica
razionale; inoltre, all’interno di essa, si colloca infine la riflessione seconda sopra
l’identità e la funzione della filosofia cristiana stessa (philosophia Christiana professa
ex professo).
Per intenderci, al primo dei gradi si colloca tutta la vita cristiana, soprattutto in
quanto “mistica” (sia ordinaria, sia straordinaria, e prescindendo dal suo preteso carattere
sovrannaturale), intesa come visione del mondo capace di coglierlo come un tutto
dotato di senso; al secondo dei gradi si presenta la filosofia dei cristiani, praticata ordinariamente
(ossia nel comune dibattito all’interno della più vasta comunità filosofica),
ossia come una filosofia cristiana in esercizio, che pur essendo cristiana nell’intimo non
si presenta formalmente e segnatamente come tale; al terzo grado, ma rinvia tale com-
16 Cf BONAVENTURA, In Hexaëmeron 14.19: «[Christus] habuit tres filios, scilicet Graecos, Iudaeos et Latinos:
quia scriptus erat titulus litteris Graecis, Hebraicis et Latinis» (i tre “figli” sono la Chiesa dalla circoncisione e le
Chiese dalle genti d’oriente e d’occidente).
17 Cf TOMMASO D’AQUINO, ST1 1.8 co + ra 2: «Non [...] ad probandos articulos fidei per rationes, sed ad solvendum
rationes, si quas inducit, contra fidem»; «sicut Paulus [...] inducit verbum Arati».
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prensione alla “filosofia cristiana” riflessa, intesa come particolare indirizzo di riflessione
filosofica.
L’interpretazione e sistemazione di tali strutture, pur riguardando in pieno la teologia,
nondimeno è pienamente filosofica, in quanto non si fonda sull’auctoritas (che è
l’autorevolezza e autenticità di una rivelazione), ma sulla sola ratio. E per questo, anche
la “filosofia cristiana” intesa in questo senso stretto può pretendere di essere universale,
come ogni filosofia, e può essere in tutto o in parte condivisa anche da non cristiani.
Le intra-strutture filosofiche del cristianesimo vanno interpretate soprattutto a partire dai testi religiosi
fondamentali della tradizione cristiana, e in particolare dalla Bibbia: infatti essa, in quanto Biblia,
ossia “Libro fatto di libri” (ciascuno col suo autore e i suoi destinatari, e tuttavia riuniti insieme a formare
un nuovo testo, che non è più la semplice somma dei suoi componenti) rinvia almeno idealmente ad un
Meta-Autore, ad un Meta-Messaggio e ad un Meta-Destinatario, ed è quindi particolarmente suscettibile
di letture e interpretazioni sempre nuove e perfino indipendenti dal testo stesso (purché coerenti ad esso),
anche da parte del filosofo; inoltre, tale Scrittura – essendo stata da tutta una tradizione riconosciuta come
Sacra – dev’essere un testo eminentemente metaforico (in quanto intende dire l’indicibile) e mistico (in
quanto intende presentare il mistero), e proprio per questo particolarmente interessante anche per il filosofo.
Il filosofo può dunque rileggere filosoficamente la Scrittura, prescindendo dalla sua eventuale
“auctoritas” e giudicando solo in base alla propria “ratio”: in tal modo la Scrittura, in quanto metaforica,
“fa pensare” il filosofo, ma non ne determina normativamente il giudizio; e, in quanto mistica, non gli
interessa per spiegare «come il mondo è», ma per “sentire” con meraviglia «che esso è» 18. Il filosofo cristiano
cioè (a differenza del teologo) non s’appella alla Scrittura, ma l’interpella, e si lascia interpellare
su di essa e da essa; come del resto molti altri filosofi interpellano e commentano i miti o i poeti, o addirittura
parlano essi stessi mitologicamente o poeticamente, senza per questo confondere la filosofia con il
mito o la poesia.
In altre parole, tanto la filosofia cristiana in senso stretto, quanto la teologia speculativa (cristiana)
studiano le strutture di pensiero del cristianesimo: però, la prima lo fa dal punto di vista metafisico
(previo alla divisione disciplinare), la seconda invece dal punto di vista propriamente teologico.
4. Infine, per ‘filosofia cristiana’ si intende in senso forte o “enfatico” 19 la philosophia
essentialiter Christiana (con l’aggettivo specificativo), che è data solo condizionatamente,
e cioè “supposita veritate revelationis”, ma che rimane filosoficamente pensabile,
nello spazio dialettico dell’argomentazione probabile 20.
La specificazione di “cristiana” può infatti convenire alla filosofia dal di dentro
(senza snaturarla) solo se si ammette la duplice manifestazione – naturale e sovrannaturale
– di Dio mediante l’unico suo Verbo che però è (rispettivamente) concreatore e incarnato.
Se infatti Cristo è veramente il Verbo “che illumina ogni uomo”, allora in ogni sistema filosofico si
nasconde una philosophia naturaliter Christiana 21, di cui i filosofi, in quanto filosofi, non possono accorgersi,
se non presupponendo la fede; in questo senso la filosofia non cristiana può essere “svelata a se
stessa” 22 come “preparazione al Vangelo” 23 e il filosofo stesso ha potuto essere ritrovato nella figura del
18 Cf Ludwig WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus 6.44.
19 Secondo una espressione cara a Xavier Tilliette.
20 In base alla dottrina dei Topici e della Retorica di ARISTOTELE, già applicata da Tommaso in OCG [1 e passim]
e SCG [1.9 e passim], e oggi riattualizzata da Chaïm PERELMAN nel Trattato dell’argomentazione: la nuova retorica.
21 Cf rispettivamente Gv 1,9 e TERTULLIANO, Apologeticum 17: «O testimonium animae naturaliter christianae!»
[testo tratto dal CLCLT-2].
22 Secondo la suggestione di Hans Urs VON BALTHASAR [in Apokalypse der deutschen Seele. Studien zu einer
Lehre von letzen Haltungen, 3 vol., Salzburg 1937-39].
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Precursore. Così tutta la filosofia può essere ricompresa teologicamente all’interno della teologia della
creazione (ossia della manifestazione naturale di Dio a tutti gli uomini).
Se poi Cristo incarnandosi è veramente divenuto il “centro di ricapitolazione di ogni cosa”, “in cui
sono nascosti tutti i patrimoni della sapienza e della scienza” 24, allora si dà anche una philosophia supernaturaliter
Christiana, ossia un filosofare all’interno della fede e un rileggere cristianamente la filosofia,
e, in generale, tutta la umana cultura e scienza (che è detta cristiana in quanto si dà un senso cristiano di
essa 25). In questo consiste la filosofia cristiana in senso più pieno; essa si fonda su una «certezza che non
può essere comunicata, perché nasce unicamente dall’intimo dell’azione perfettamente
personale» 26 e che perciò rimane filosofica solo in senso paradossale.
23 Secondo il titolo dell’opera di EUSEBIO DI CESAREA.
24 Cf Ef 1,10 e Col 2,3; cf anche Col 1,15-20 e 2,1-10.
25 Così ad esempio un brillante esempio di rilettura cristiana (e cristocentrica) non solo della filosofia, ma di
tutto il sapere e di tutta la cultura (compresa la tecnologia) è quello offerto da BONAVENTURA in De reductione artium
ad theologiam e in Collatio in Hexaëmeron 1.
26 Maurice BLONDEL, L’Action (1893), conclusione.
8
RIEPILOGO SCHEMATICO DEI QUATTRO SENSI DI “FILOSOFIA CRISTIANA”
1. PHILOSOPHIA CHRISTIANORUM [gen. sogg.]
= Storia (diacronica) e Fenomenologia (sincronica)
della Filosofia dei “Cristiani”
2. PHILOSOPHIA CHRISTIANISMI [gen. ogg.]
scilicet de religione Christiana
= Filosofia della religione cristiana
Attraverso la riduzione filosofica della teologia e l’analisi di “momenti” e “figure”:
3. PHILOSOPHIA CHRISTIANISMI [gen. sogg.]
scilicet in Christianismo exercita
= Ermeneutica e Sistematica
delle intra-strutture filosofiche del Cristianesimo
3.1 Implicitamente
3.1.1 Filosofia implicita (exercita) nel Cristianesimo
3.1.2 Filosofia cristiana in esercizio (professa in actu exercito)
3.2 Esplicitamente
3.2.1 Filosofia cristiana tematizzata (professa in actu signato)
3.2.2 Filosofia cristiana in riflessione tematica (professa ex professo)
NB: Uso neutrale, reciproco, interno, esterno della Filosofia Cristiana
Attraverso la tematizzazione del’interazione tra fede e ragione:
4. PHILOSOPHIA ESSENTIALITER CHRISTIANA
= Filosofia specificamente cristiana, in due sensi, secondo lo “schema del doppio”:
4.1 Philosophia naturaliter Christiana 4.2 Philosophia supernaturaliter Christiana
§ 3. TERZA TESI. Per ‘lemmata Christianorum’ si intende la terminologia coniata o
semanticamente modificata dal cristianesimo, il cui uso – specifico e aspecifico – riflette
e manifesta le intra-strutture filosofiche del cristianesimo.
In base ai quattro sensi di filosofia cristiana, deriva l’ammissibilità, riconoscibilità
ed eventuale classificabilità di “concetti” e “vocaboli” cristiani (i lemmata Christianorum)
come “categorie” del cristianesimo.
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1. Per lemmata Christianorum intendiamo il lessico proprio del cristianesimo in
quanto o morfotematicamente coniato o almeno semanticamente modificato dai cristiani,
a motivo del nuovo orizzonte di senso costituito dalla loro fede.
2. Lo studio lessicografico e logografico di tali lemmi rientra nella filosofia del linguaggio
cristiano, il cui impianto lessicale e concettuale è per un verso a-specifico
(ossia in rapporto di continuità e comunanza rispetto al contesto non cristiano), ma per
l’altro verso specifico (ossia in condizione di discontinuità e originalità).
I lemmata Christianorum hanno la duplice funzione di esprimere tanto il sermo de Deo quanto il
sermo cum Deo, e anzi, questo prima di quello (in conformità anche a quello che era ed è lo spirito domenicano):
la lex orandi per la teologia è lex credendi; per la filosofia, invece, è lex cogitandi (non cognoscendi),
in quanto appunto “dà da pensare” al filosofo, pur non bastando a determinarne il giudizio.
3. Poiché in generale l’uso del lessico manifesta la philosophia exercita del locutore,
allora il sistema concettuale insito nell’uso dei lemmata Christianorum costituisce
una delle più rilevanti intra-strutture filosofiche del cristianesimo.
Tali lemmi, che esprimono quei concetti utilizzati per pensare l’essenza del cristianesimo,
sono paragonabili in parte agli otri nuovi fatti per contenere il vino nuovo; e in
parte agli otri vecchi che devono essere riempiti fino all’orlo per contenere l’acqua trasformata
in vino, e per poi esplodere 27: per un verso, infatti, i concetti precristiani (o
comunque non cristiani) vengono assunti, affinati ed estesi, per poter “pensare” e contenere
il messaggio cristiano, fino ad “esplodere” nell’analogicità; per l’altro verso, le
categorie in cui è originariamente espresso il messaggio cristiano e le categorie in cui è
stato successivamente riversato possono essere svuotate del loro contenuto teologico, ed
essere consegnate o restituite (affinate ed estese) al pensiero umano come categorie filosoficamente
significative anche al di fuori del cristianesimo.
Così, secondo il primo movimento, categorie filosofiche e religiose non cristiane possono essere riformulate
per esprimere più adeguatamente il “nuovo” e possono perfino essere restituite
“speculativamente più raffinate” alla filosofia: come ad esempio hanno fatto i Padri e gli Scolastici con le
categorie di natura, persona, essere, e così via.
Invece, secondo l’altro movimento, categorie bibliche o in generale cristiane possono essere secolarizzate
e utilizzate filosoficamente; e questo in in tre modi diversi: o per riduzione a concetti speculativi
(come ad esempio ha fatto Hegel con la categoria di spogliazione…); o per assunzione dialettica come
progetti o ipotesi (come ad esempio ha fatto Kierkegaard con le categorie di paradosso, scandalo, momento…);
o per riconduzione al loro fondamento naturale e preconfessionale (alla luce del procedimento
“socratico” e “anamnestico” adottato da Marcel per le categorie di mistero, fede, speranza, amore…) 28.
In una circolarità di movimenti, possiamo trovare nozioni come quelle di ricerca e di comunicazione
(e comunione), o di sapienza e affini, presenti in modo diverso tanto nel messaggio biblico quanto
nella tradizione culturale ellenica, dal cui incrocio sono state potenziate e perfezionate, offrendo un esempio
significativo di interazione tra cristianesimo e filosofia e di contributo originale (ma non dirompente)
del cristianesimo alla storia del pensiero.
27 Secondo una interpretazione metaforica incrociata di Mt 9,17 e Gv 2,3-10. Per la metafora dell’acqua della
filosofia mutata nel vino nuovo della teologia, cf BONAVENTURA, In Hexaëmeron 19 e André HAYEN, “Aqua totaliter
in vinum conversa”. Philosophie et Révélation chez Saint Bonaventure et Saint Thomas, in: Metaphysik im Mittelalter:
ihr Ursprung und ihre Bedeutung (Miscellanea Mediaevalia 2), Berlin, De Gruyter 1963, p. 317-324.
28 Cf di DIONIGI, De divinis nominibus; di BOEZIO, De duabus naturis; di TOMMASO, CMP 5 (e OEE); di Georg
Wilhelm Friedrich HEGEL, Fede e Sapere, Conclusione, ed Enciclopedia, § 564-577; di Søren KIERKEGAARD, Il concetto
dell’angoscia, 1; Esercizio del Cristianesimo, numero II (“una esposizione biblica e definizione cristiana dei
concetti”), e in particolare la parte relativa alle “categorie concettuali”; di Gabriel MARCEL, Il Mistero dell’essere,
1.1 e 1.10.
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4. Ammessa la verità della rivelazione cristiana, la logografia di tali parole, esprimenti
i lógoi (ossia parole e idee) comuni alla filosofia e alla teologia porta a scoprire
che “al fondo delle parole si cela la Parola” 29. In tali lógoi, infatti, la filosofia cerca il
Lógos originario e originante (interpretando umanamente il parlare proprio di Dio che è
l’essere da lui creato); la teologia invece lo fa coincidere con il Lógos generato e incarnato
(interpretando il parlare umano della Scrittura, che si presenta come ispirato da
Dio).
§ 4. QUARTA TESI. Alla luce delle definizioni date di filosofia cristiana, si risponde
facilmente alle obiezioni da varie parti mosse al riguardo di una filosofia fatta da
credenti.
“Voi non cercate davvero, perché credete di aver già trovato (per fede)…; e se invece
cercate, allora credete di credere (per doxa), ma non credete davvero…”. Ma noi
continuiamo a cercare con la ragione ciò che crediamo di aver trovato per fede!
“Se cercate con la ragione, cercate in malafede, perché non ammettereste mai di
aver trovato qualcosa non conforme alla fede!”. Ma se non fossimo convinti di questo in
coscienza, non avremmo perseverato nella fede! Poiché infatti, come dice Kant, il primo
dovere del filosofo (e non solo suo) è la coerenza (e non solo dottrinale, ma soprattutto
esistenziale), allora come disse Elia, «fino a quando zoppicherete da entrambi i piedi?
Se infatti è Dio Baal seguitelo, ma se lo è il Signore adorate lui».
“Voi non siete liberi di dire ciò che volete!”. Ma noi vogliamo dire quel che diciamo!
«Voi siete condizionati da un a-priori…». Tutti lo siamo! Infatti, primum vivere,
deinde philosophari e tutta la filosofia è immersa in un a-priori “teologico” (anche fosse
ateo), ossia l’orizzonte di senso della propria “visione del mondo”. E a maggior ragione
lo siete voi, se presupponete che chi cerca non possa trovare.
«La fede e la teologia non necessitano di una filosofia e un’ontologia…». Ma per
credere che “Dio ha risuscitato Gesù dai morti”, occorre avere almeno una precomprensione
di cosa significhino “Dio”, “risuscitare”, “morte” e di cosa comporti la nozione di
causalità, e così via…
«Sotto il nome di coscienza, voi coniate monete false davanti a voi stessi». Se la
nostra zecca conia moneta falsa, cosa conia allora chi non ammette neppure una zecca?
“Ma la proiezione della fede in fondo vi fa comodo”. Ma a noi tanto comodo veramente
non fa.
“Chi crede e filosofa, che farà qualora fede e filosofia confliggessero?”. Se si risponde
che vera fede e vera filosofia non potranno mai confliggere, provenendo entrambe
dall’unica fonte che è Dio che si manifesta per natura e si rivela per grazia, questo
può andar bene teologicamente, ma non filosoficamente: infatti che esse non confliggano
non è dimostrabile filosoficamente, ma solo teologicamente; come tale dunque
non è utilizzabile in una discussione filosofica. Anzi, aumenta il sospetto di un accomo-
29 Secondo un’espressione adoperata da Roberto Busa: «in verbis imis Verbum latet».
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damento surrettizio e di una “malafede” teologica. Viceversa il discorso è questo: se
confliggeranno, deciderà la coscienza. Infatti, in un primo caso, vale il principio del
primum vivere, deinde philosophari: ossia l’esperienza val più di una teoria. Nessun filosofo
sacrificherà la vita per salvare la sua teoria (e se anche la sacrificasse, si troverebbe
in contradictione exercita), ma semmai riformulerà la propria teoria fino a che sia
adeguata alla vita. Ma se il conflitto è fra due teorie o due interpretazioni radicali della
vita, una dovuta alla fede e l’altra dovuta alla ricerca razionale, allora è la coscienza (in
quanto misura misurata) che lo risolve. In questo senso, la fede rientra in quella che
Cartesio chiamava “morale provvisionale” (e non, come spesso erroneamente s’intende
“provvisoria”: in effetti essa è duratura), che non contrasta con le esigenze della ragione;
anzi le rende possibili e reali, facendole appoggiare sulla vita.
Però, come dice Schopenhauer, «fede e sapere non vanno d’accordo nello stesso
cervello: essi vi stanno come lupo e pecora nella stessa gabbia» 30. Ben stiano: se il lupo
mangerà la pecora, avremo un credulone di meno; se il lupo non potrà mangiarla, abbiamo
riscontrato che una fede irriducibile rimanda a una condizione in cui, secondo
Isaia, «il lupo e l’agnello pascoleranno insieme». La fede in cui “si spera contro ogni
speranza” (“in spe contra spem”) è appunto ciò che resiste alla critica di ogni vacua
certezza. Solo la fede che attraversa l’abisso della vacuità dell’esistenza merita di esser
creduta («vanità di vanità: tutto è vanità; morale del discorso, dopo che si è ascoltata
ogni cosa: rispetta Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo per l’uomo è tutto
»). La speranza non è una falsa certezza, ossia una stampella che surrettiziamente uno
cerca in se stesso.
“Chi crede, trucca di nascosto i suoi ragionamenti filosofici”, come un prestigiatore
che dal suo speculativo cappello tragga il coniglio dogmatico che vi aveva prima surrettiziamente
introdotto, o che poi sempre surrettiziamente lo sottragga al critico colpo
di pistola. Ma ebbene, proprio secondo la felice immagine di Schopenhauer, non vìola
la razionalità filosofica il filosofo che disponesse di una bussola segreta, che lo guidi
nella navigazione, purché egli rifaccia i suoi calcoli in base alle stelle e alle mappe comunemente
usate 31.
“In filosofia cristiana non fate vera filosofia, ma teologia della filosofia o apologia
della teologia”. Ma noi nella filosofia cristiana riflessa operiamo una particolare epoché
30 Così Arthur SCHOPENHAUER: dalla silloge, compilata da Franco Volpi utilizzando testi pubblicati e postumi,
L’arte di insultare, Adelphi, Milano 1999, p. 62 (cf anche Parerga, vol. 2, § 175): «Fede e sapere non vanno
d’accordo nello stesso cervello: essi vi stanno come lupo e pecora nella stessa gabbia; e il sapere è il lupo che minaccia
di divorare il suo vicino. Il sapere è fatto di materia più dura della fede, di modo che, quando cozzano fra loro, la
fede si spezza».
31 Cf Arthur SCHOPENHAUER, Parerga e Paralipomena, vol. 2, § 10, trad. it. a cura di Giorgio Colli, Adelphi,
Milano 1981 (qui citata con qualche correzione): «Nell’insieme la filosofia di tutti i tempi si può anche considerare
come un pendolo che oscilla tra razionalismo e illuminazionismo, cioè tra l’uso della fonte conoscitiva oggettiva e
della fonte conoscitiva soggettiva. Il difetto fondamentale dell’illuminazionismo è che la sua conoscenza non è comunicabile,
in parte perché per la percezione interiore non vi è il criterio dell’identità dell’oggetto per soggetti diversi;
in parte, perché tale conoscenza dovrebbe pur tuttavia essere comunicata mediante il linguaggio. […]. Ora una
tale conoscenza essendo incomunicabile è anche indimostrabile. […]. Ma la filosofia dev’essere comunicabile; perciò
deve essere razionalismo. Nondimeno alla base del razionalismo può essere un illuminazionimo travestito, verso
il quale allora il filosofo guarda come verso una bussola nascosta, mentre per sua stessa ammissione egli regola il suo
cammino solo sulle stelle, cioè sugli oggetti che esistono esteriormente e chiaramente e tiene conto soltanto di questi.
Ciò è ammissibile purché un tal filosofo non si metta a comunicare la conoscenza incomunicabile, bensì le sue comunicazioni
restino puramente oggettive e razionali».
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fenomenologica, ossia la “messa tra parentesi” della fede, e la riduzione filosofica della
teologia (nel senso di “riconduzione”, inversa a quella teologica della filosofia, mostrata
da Bonaventura), ossia (blondelianamente) come ipotesi e pretesa.
“Voi, in quanto confessionalmente caratterizzati, fate una filosofia chiusa in se
stessa”. Anzi, la filosofia cristiana costituzionalmente si confronta con le altre filosofie;
delle altre si può dire altrettanto? Molte ragioni ha il cristiano filosofo per confrontarsi
criticamente con altri: se uno ha paura di confrontarsi con chi non crede, non è sicuro di
ciò che crede; e se uno è così sicuro di ciò che crede, da non volersi confrontarsi con chi
non crede, anche allora non è sicuro; bisogna paolinamente “saggiare ogni cosa” (col
sapere) “per ritenerne ciò che è buono” (e mostrare coi fatti ai critici della fede che
l’imperativo del credente non è “non devi sapere”); bisogna evangelicamente benedire
quelli che ci maledicono (e quindi dir bene anche di chi come Nietzsche ha scritto una
“maledizione del Cristianesimo”): infatti (parafrasando il vangelo), se leggiamo solo i
testi di quelli con cui siamo d’accordo, che merito ne avremo? “Non fanno così anche i
pagani?”.
§ 5. QUINTA TESI. La filosofia cristiana a volte è intesa in senso ambivalente, come
cioè teologia (cristiana) della filosofia e come filosofia della teologia (cristiana),
l’unica però ad essere filosofica in senso stretto.
Nel 1998, il papa Giovanni Paolo II nella sua enciclica Fides et Ratio [76] riprendeva
la nozione di filosofia cristiana, garantendone da una parte la legittimità dal punto
di vista teologico (in quanto «speculazione filosofica concepita in unione vitale con la
fede», ossia in senso enfatico, e non solo in senso minimale in quanto i filosofi cristiani
«nella loro ricerca non hanno voluto contraddire la fede», ma comprendendovi anche
«tutti quegli importanti sviluppi del pensiero filosofico che non si sarebbero realizzati
senza l’apporto diretto o indiretto della fede cristiana»), e però non entrandovi filosoficamente
nel merito, in quanto «non una filosofia ufficiale della Chiesa». In questo vengono
distinti due aspetti della filosofia cristiana: uno soggettivo, come valore della fede
nei confronti della ragione, e uno oggettivo, riguardante i contenuti.
Ma c’è da dire che tutta questa distinzione rientra in una teologia (cristiana, o in
questo caso “cattolica”) della filosofia; viceversa noi dobbiamo anche fare una filosofia
della teologia (cristiana), in cui, certamente, anche la teologia della filosofia venga fatto
oggetto di riflessione.
Per fare un discorso filosofico, e non teologico, sulla filosofia cristiana, occorre però
introdurre la nozione di epochè o messa tra parentesi della fede e la riconduzione filosofica
della teologia (ossia una riduzione non “riduttivistica”), per cui categorie come
quella di “rivelazione”, “sovrannaturale”, “peccato originale”, “Cristo come Uomo Dio”
vengono ricondotte a categorie filosofiche della possibilità, quali pretesa di rivelazione,
“ipotesi del sovrannaturale”, “ingiustezza originale”, “Idea di Uomo Dio”. Tale riconduzione
sarà quindi aconfessionale, non nel senso di anticonfessionale, ma di preconfessionale
(in quanto fondata su princìpi a priori dell’atto di fede).
Tale filosofia cristiana può però essere attuata in actu exercito e in actu signato.
Quest’ultima serve alla prima e alla verifica dei procedimenti di interazione tra esperienza
religiosa cristiana e riflessione razionale autonoma. Ebbene, tale riflessione può
essere attuata in un regime di duplice focalizzazione: in focalizzazione interna (ossia
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come autocomprensione del cristianesimo) e in focalizzazione esterna (ossia come eterocomprensione
del cristianesimo). Anche se solo un cristiano credente arriverà ad una
piena focalizzazione interna nella comprensione del cristianesimo, e solo un non credente
ad una piena focalizzazione esterna in essa, tuttavia credenti e non credenti, pur
separati dalla nozione di mistero quale “nube chiaroscura” che “impedisce agli uni di
accostarsi agli altri” (per i credenti infatti il mistero è rivelativo, ma illuminante di
spalle; per i non credenti invece il mistero è il residuo oscuro frontale), possono mutuamente
aiutarsi nella elaborazione di una equilibrata e comunicabile filosofia cristiana,
utile agli uni come agli altri.
A tale scopo, bisogna innanzitutto determinare quale sia lo spazio filosofico di una
eventuale teologia rivelata; poi quale sia lo spazio teologico (nella concreta teologia del
cristianesimo) per una filosofia; e infine stabilirne le modalità di interazione, avendo la
capacità di affrontare il problema non solo dal punto di vista della filosofia e da quello
della teologia cristiana, ma da entrambi, e in qualche modo da un punto di vista decentrato.
§ 6. SESTA TESI. Lo “spazio filosofico” per una teologia positiva è dato dalla distinzione
filosofica (e pre-cristiana) di tre modalità di ricerca del senso (cercarlo in
sé nella Gnosi, cercarlo da sé nella Filosofia, chiederlo a Chi possa e voglia comunicarlo
per Rivelazione), sempre che in qualcuna sia possibile trovare ciò che si
cerca.
Già Platone 32 aveva distinto tre modalità della ricerca riguardo alla realtà ultima,
che possiamo, anche alla luce di sviluppi ulteriori, ridefinire così 33: cercar di trovare da
sé e in sé (quaerere in se), cercare con le proprie forze ma in altro, come su una zattera
(quaerere ex se), chiedere ad altri (quaerere ab alio) che possano e vogliano comunicarci
quanto cerchiamo, e quindi affidarci ad una più sicura navigazione. Queste sono in
fondo i tre approcci della Gnosi, della Filosofia e di una eventuale Rivelazione, approcci
che anche storicamente si sono a volte mantenuti separati o addirittura opposti, a
volte si sono invece intrecciati. Sia la Gnosi che la Rivelazione propongono una Sapienza,
ma la prima la coglie per illuminazione e ispirazione autonoma, la seconda la riceve
per fede.
Ebbene, già Platone aveva enunciato da una parte la necessità di una mediazione
fra logos e mythos religioso, onde evitare il rischio della misologia, e d’altra parte la
convenienza del credere 34. Oggi possiamo in riferimento alla questione religiosa acco-
32 Cf PLATONE, Fedone (trad. it.: Opere complete in CD, Laterza, Bari nel 1999): «Perché insomma, trattandosi
di tali argomenti, non c’è che una cosa sola da fare di queste tre: o apprendere da altri dove sia la soluzione; o trovarla
da sé; oppure, se questo non è possibile, accogliere quello dei ragionamenti umani che sia se non altro il migliore
e il meno confutabile, e, lasciandosi trarre su codesto come sopra una zattera, attraversare così, a proprio rischio,
il mare della vita: salvo che uno non sia in grado di fare il tragitto più sicuramente e meno pericolosamente su
più solida barca, affidandosi a una divina rivelazione» [35; è Simmia a parlare]; «Ora io, dunque, per apprendere una
causa di tal genere […], siccome […] non fui capace né di trovarla da me né di apprenderla da altri, mutai modo di
navigazione» [47; è Socrate a parlare]. In realtà, le vie prospettate sono quattro (anche se la rivelazione divina è ammessa
solo come ipotesi limite); d’altra parte, l’apprendere la soluzione da altri ripropone il problema di come questi
a loro volta l’abbiano appresa; dunque tale approccio deve essere ricondotto a sua volta a uno degli altri tre.
33 Cf Andrea DI MAIO - Stefano GUACCI - Gianmarco STANCATO, Il concetto di “cercare” (‘quaerere’) in Tommaso
d’Aquino, in «Medioevo» 1996, p. 39-135.
34 Cf PLATONE, Fedone (trad. it. cit.) «Ma bisogna badare a che non ci càpiti il guaio […] di diventare misòlogi»
[39; è Socrate a parlare]; «Certo, ostinarsi a sostenere che le cose siano proprio così come io le ho descritte, non si
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stare all’atteggiamento esclusivo della misologia, cioè il fondamentalismo, anche quello
di una analoga misomisterìa, o razionalismo.
Secondo una metafora medievale 35, la filosofia cristiana è come l’“aqua totaliter
in vinum conversa” da Gesù alle nozze di Cana: ebbene, questo banchetto nuziale si sovrappone
al simposio filosofico, in cui si ricerca il vino della verità e ci si accorge che il
vino è venuto a mancare, ossia il senso sofico della vita, e si cerca di riempire le capacità
umane fino all’orlo attraverso la mediazione di Gesù Cristo, nuovo mediatore (al
posto dell’Eros platonico) tra divinità e umanità 36.
Platone aveva intrapreso una seconda navigazione, ossia metafisica, che è la teologia
razionale, ma aveva lasciato aperta la possibilità di una navigazione ulteriore. Tale
terza navigazione più sicura è, secondo una nota interpretazione, quella che Agostino
intendeva attraverso il Legno della Croce (giocando sull’ambivalenza semantica di
‘lignum’, “legno” e “nave”) 37. Per Agostino la filosofia è Soliloquio come dialogo fra il
sé empirico e il Sé trascendentale e pertanto comunicabile (è questo il fondamento del
dialogo interpersonale); una eventuale teologia rivelata sarebbe invece Confessione 38.
In maniera geniale Agostino aveva nel prologo delle Confessioni esposto l’aporia
fondamentale, il circolo vizioso, della ricerca: chi cerca deve aver già trovato; chi chiede
deve conoscere prima di invocare, ma deve invocare per conoscere; e solo
l’eventuale autocomunicazione del Cercato può rompere il circolo, irrompendo in esso.
Tale irruzione è la definizione filosofica del gratuito.
Significativamente il “gratuito” è duplice, indicando a volte la banalità del dato
senza senso, e a volte la pienezza donata di senso.
Tutta la ricerca filosofica è immersa in un precategoriale orizzonte di senso, che è
la personale e comunitaria “visione del mondo”, che pertanto costituisce per tutti i filosofi
l’a-priori (in qualche modo “teologico”, in senso ampio) della propria filosofia.
Alla luce degli odierni sviluppi della filosofia, le possibili posizioni della questione
di senso sono fondamentalmente queste: il personalismo del Senso (il Senso c’è ed è
personale e va personalmente scoperto, perché «Solo la verità che edifica è una verità
per te» 39); l’impersonalismo del Senso (il Senso c’è, ma è impersonale ed ineffabile 40);
addice a uomo che abbia senno; ma credere che sia così o poco diverso di così […], mi pare si addica, e anche metta
conto di avventurarsi a crederlo. E la ventura è bella. E giova fare a se stesso di tali incantesimi; e proprio per questo
già da un pezzo oramai io tiro in lungo la mia favola» [63].
35 Cf Gv 2,3-10 e Mt 9,17; BONAVENTURA, In Hexaëmeron 19; cf anche André HAYEN, “Aqua totaliter in vinum
conversa”. Philosophie et Révélation chez Saint Bonaventure et Saint Thomas, in: Metaphysik im Mittelalter: ihr Ursprung
und ihre Bedeutung (Miscellanea Mediaevalia 2), Berlin, De Gruyter 1963, p. 317-324.
36 Devo la suggestione del Cristo nuovo Eros, e quindi nuovo filosofo, a una relazione tenuta da Giovanni Salmeri
a un convegno padovano per ricercatori del Centro di studi filosofici di Gallarate alla fine degli anni 1990.
37 Cf AGOSTINO, Commento al Vangelo di Giovanni, 2.2 e 2.4; cf anche Giovanni REALE, Introduzione a
AGOSTINO, Amore assoluto e «terza navigazione», Rusconi, Milano 1994, § 17-18.
38 Cf AGOSTINO, Soliloqui, 2.7.14; 1.1-2; 2.1; Confessioni 1.1; Ritrattazioni 2.6.1 e Sermone sulla triplice confessione.
39 Søren KIERKEGAARD, Aut Aut, Ultimatum (1843). Cf anche Postilla, 2.2.2 (1846): «Quando il problema della
verità [essenziale] si pone in modo oggettivo, si riflette oggettivamente sulla verità come su un oggetto… e, rapportandosi
ad esso, il soggetto è nella verità…; quando invece si pone in modo soggettivo, si riflette soggettivamente sul
rapporto dell’individuo… e anche quando è nella verità, si rapporta alla non verità». Quello che Kierkegaard chiama
‘oggettivo’ e ‘soggettivo’ forse è più chiaro se reso con ‘oggettuale’ e ‘personale’, per evitare che la posizione teoretica
kierkegaardiana venga fraintesa come soggettivismo.
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e il nichilismo del Senso (non vi è alcun Senso; siamo noi a doverlo dare 41). Accanto a
tali posizioni possiamo oggi individuare due vie di approccio al senso, rispettivamente
analitica ed ermeneutica, in quanto cioè il “misterioso” ineliminabile può (solo?) essere
indirettamente mostrato, analizzandone (ossia dissolvendone) la questione 42; oppure
può (solo?) essere ri-cercato, interpretandone (ossia riproponendone e rielaborandone)
la questione 43.
Ebbene, il personalismo del Senso può trovare la via mediana tra soggettivismo e
oggettivismo (in quanto la verità personale è sì relativa al singolo soggetto, ma è a lui
oggettivamente data), attraverso la nozione tipicamente cristiana (ma pienamente filosofica)
di appello della coscienza (o vocazione). La coscienza è la “mediazione immediata”
che obbliga ciascuno ad essere fedele al «posto assegnatogli» (la táxis) nel mondo.
La coscienza ha un ruolo teoretico indiretto: infatti la sua domanda non è quale sia
la verità in astratto, ma quale sia il mio posto nel mondo; ma da questo tutto segue. Vediamo
come cambia la problematica religiosa se affrontata in termini di coscienza o di
astrattezza.
In termini di astrattezza si dovrebbe rispondere alle seguenti domande: “C’è un
Senso? È personale? È donato da un Dio? Tale Dio si rivela in una religione? Qual è
questa religione? Qual è la vera religione fra le tante che si conoscono e fra quelle che
non si conoscono ancora?”. Ciascuno vede che su tale via non si arriva da nessuna parte.
Viceversa, dal punto di vista della coscienza l’uomo si chiede: “Dov’è il mio posto?
A cosa sono chiamato?”. In altre parole (riprendendo la celebre metafora evangeli-
40 Cf Arthur SCHOPENHAUER, Parerga e Paralipomena (1851), vol. 2, § 1 e 108-19: «La base […] su cui si fondano
tutte le nostre nozioni e scienze è l’inspiegabile: ad esso riconduce ogni spiegazione […]; esso riguarda la metafisica
»; «Le verità fisiche possono avere un gran significato esteriore, ma non interiore, che è privilegio delle verità
intellettuali e morali. […] Che il Mondo abbia solo un significato fisico e nessun significato morale: ecco il massimo
errore […], ciò che la fede ha personificato come Anticristo». È interessante che Nietzsche assuma proprio
quest’ultima figura per esporre il suo nichilismo di senso.
41 Cf Friedrich NIETZSCHE, Volontà di potenza (edizione in trad. it. a cura di Ferraris e Kobau, con le importanti
annotazioni, Bompiani, Milano 2001), Frammenti 2, 55 e 495 (1887): «Che cosa significa nichilismo? Significa che i
valori supremi perdono valore. Manca lo scopo. Manca la risposta al “perché?”»; «Pensiamo questo pensiero nella
sua forma più terribile: l’esistenza qual è, senza senso né scopo, ma inevitabilmente ritornante, senza esito, nel nulla
[…]: l’eterno ritorno […], il nulla (nonsenso) eterno!»; «Il senso della verità deve legittimarsi […] come volontà di
potenza. […] Noi possiamo capire solo un mondo che noi stessi abbiamo fatto». Se si continua a cercare un senso là
dove non c’è si cade nel nichilismo passivo, ossia nella decadenza e nello sdoppiamento; se invece si accetta coraggiosamente
che non vi è alcun senso con un nichilismo attivo, allora si può dar senso a ciò che in sé non ne ha.
42 Cf Ludwig WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus (1918): «La soluzione dell’Enigma della vita nello
spazio e tempo è fuori dello spazio e tempo» [6.4312]; «Come il mondo è, è del tutto indifferente per ciò che è più
alto. Dio non rivela sé nel mondo» [6.432]; «Non come il mondo è, è il Mistico, ma che esso è» [6.44], ovvero sentire
il mondo come un tutto limitato; «D’una risposta che non si può formulare non si può formulare neppure la domanda.
Non si dà Enigma. Se una domanda può porsi, può pure avere risposta» [6.5]; «Noi sentiamo che anche qualora tutte
le possibili domande scientifiche avessero avuto risposta, i problemi della vita non sarebbero stati ancora neppure
toccati. Certo, allora non resta più domanda alcuna, e questa appunto è la risposta» [6.52]; «La soluzione del problema
della vita si scorge allo sparir di esso» [6.521]; «Vi è davvero dell’ineffabile: esso mostra sé, è il Mistico»
[6.522]; «Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere» [7].
43 Cf Martin HEIDEGGER, Essere e Tempo (1927; citato con qualche modifica nella trad. it. di Pietro Chiodi,
Longanesi, Milano 1970), Esergo iniziale: «È dunque necessario riproporre il problema del senso dell’essere […]
col ridestare la comprensione del senso di tale problema. Lo scopo del presente lavoro è quello
della elaborazione del problema […]; il suo traguardo provvisorio è l’interpretazione del tempo come orizzonte possibile
di ogni comprensione dell’essere in generale».
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ca), sebbene l’essenziale per il tralcio sia di essere attaccato alla sua vite, non è indifferente
dove: nessuno infatti può mettersi altrove che al “suo” posto. Da questa concezione
nasce anche una pluriversione (che non è molteplicità) della verità. Proprio
dell’amore è infatti fare a persone diverse doni diversi.
La verità personale può così essere oggettiva senza essere oggettuale, ossia ammette
un problema di sfumature: così, quando Moro ritiene di dover rifiutare il giuramento
al Re, non intende con questo condannare quanti invece hanno giurato 44.
L’idea di coscienza collettiva, ossia non di un singolo, ma di una persona corporativa, come la
Chiesa, costituisce il fondamento filosofico della sua pretesa di infallibilità quanto all’insegnamento connesso
con la salvezza.
§ 7. SETTIMA TESI. Lo “spazio teologico” (ebraico-cristiano) per la filosofia è dato
dalla distinzione ebraica tra una legge data fuori e una dentro.
Lo schema del doppio si fonda sulla nozione già ebraica del duplice Verbo: «una
sola Parola ha detto Dio, due però ne ho udite»: nella natura cioè e nella grazia. Per la
prima, «i Cieli narrano la gloria di Dio»; per la seconda, «la Legge del Signore è perfetta
». Sebbene cioè fin dall’eternità Dio abbia detto nel suo Verbo tutto quello che
aveva da dire, nel tempo però quest’unico Verbo è stato espresso in due modi diversi,
ossia nella creazione e nell’incarnazione. Sulla scorta del prologo di Giovanni e della
tradizione teologica, si parla perciò di un duplice Verbo.
Questo schema del doppio sarà adottato da tutta la cultura occidentale: sulle due
basi sono costruiti i due Libri, della Natura e della Scrittura; questo schema profondamente
trasformato sarà alla base della distinzione galileiana fra la scienza e la teologia e
secolarizzato sarà alla base dell’asserto kantiano del “Cielo stellato” e della “Legge morale”,
ossia della filosofia teoretica e pratica.
Secondo un testo classico all’inizio della lettera ai Romani, gli etnici sono legge a
se stessi; da qui, l’idea patristica secondo cui quel che la Torah fu per i Giudei, fu la
Filosofia per gli Etnici. Epicurei e Stoici sono nominati come interlocutori di Paolo
all’Areopago; l’inno di Arato e varie affermazioni socratiche, platoniche ed anche aristoteliche
sono citate nelle Scritture intertestamentarie e neotestamentarie. Addirittura
Epimenide viene considerato (anche se retoricamente) “uno dei profeti” dei cretesi.
Similmente, all’inizio della prima lettera ai Corinzi vengono opposti due atteggiamenti,
che possiamo identificare nella filosemia giudaica e nella filosofia etnica (in particolare
ellenica), che sarebbero assunte e superate dal logos della croce. In questa prospettiva,
i cristiani che senza tener conto della mutatio temporum (dall’antica alla nuova
alleanza) volevano unire alla fede cristiana il ritorno a tali atteggiamenti furono chiamati
(a volte ingiustamente e ingenerosamente) iudaizantes o philosophantes, questi ultimi
prosecutori della «vana filosofia ispirata agli elementi del mondo e non secondo
Cristo», secondo la celebre espressione della lettera deuteropaolina ai Colossesi.
44 Cf la “lettera a un prete” di Thomas MORE (dalle Lettere dal carcere): «Io non agisco per ostinazione, ma per
la salvezza dell’anima mia, non potendo indurre la mia mente a pensare in modo diverso in merito al giuramento,
[…] perché sono certissimo che se dovessi prestare giuramento [di sottomissione al Re quale capo della Chiesa anglicana],
arrecherei un dolore mortale alla mia coscienza […]. In quanto poi alla coscienza degli altri, io non ne sarò
giudice; né mai ho spinto alcuno a prestare o a rifiutare il giuramento. […]. […] che tutti
coloro che hanno prestato giuramento possano mostrarsi verso il Sovrano sudditi leali quanto – come mi viene assicurato
– lo sono coloro che hanno rifiutato di prestarlo».
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Proviamo a ricostruire questa teologia del duplice Verbo in base soprattutto alla dottrina agostiniana
e bonaventuriana.
Innanzitutto c’è il Verbo increato, che fin da principio (nell’eternità) è nel seno del Padre e «per
mezzo del quale» al principio dei tempi «tutto fu fatto» e «senza del quale fu fatto nulla, cioè il peccato»;
e questo Verbo «è la luce vera che illumina ogni uomo che viene nel mondo»: «questo […] Verbo è la
Verità, ossia (secondo la definizione) “adeguazione dell’intelletto e della realtà intesa”, dell’intelletto cioè
che è causa della realtà, e non del mio intelletto che della realtà non è causa» 45. Pertanto le diverse creature
sono come tante parole che significano l’unico Verbo increato, e tutto il creato (che le contiene) è
come un libro, il libro della natura, scritto in parte esteriormente (come libro del macrocosmo, o mondo
corporeo esteriore, contenente le impronte di Dio), e in parte è scritto interiormente (come libro del microcosmo,
o anima, che di Dio è immagine). Tale libro contiene la legge di natura (ossia la rivelazione
naturale di Dio e dell’uomo), da cui deriva il diritto naturale (ossia la morale immutabile dell’uomo che è
alla base del diritto positivo). La legge di natura è nascosta interiormente nella coscienza dell’uomo, così
che siamo inescusabili se non la pratichiamo. Destinatari di tale rivelazione sono in generale «tutti gli
uomini che vengono al mondo», ma in particolare essa è stata accolta dai patriarchi della Genesi e dai
filosofi antichi, mentre i pagani l’hanno travisata giungendo alla perversione dell’idolatria. Per consentire
all’uomo di leggere il libro della natura e la legge naturale, Dio lo ha provvisto del lume indito naturale
(inserito per creazione nelle sue facoltà naturali), riflesso della luce vera del Verbo. Dopo il peccato, però,
l’uomo peccatore, come un analfabeta, è incapace di comprendere il senso ultimo del libro che ha davanti,
e perciò non può non può contemplare in alto per ottenerne la sapienza, ma solo considerare verso
il basso, dove è la scienza. L’intelligenza del Verbo increato fonda la filosofia (che è la lettura e meditazione
del libro della natura in vista di una contemplazione sapienziale di Dio). Ma dopo il peccato l’uomo
può arrivare a sapere che ci dev’essere un Verbo increato, nel senso di un progetto creatore di Dio, ma
non arriva a conoscere il Verbo come seconda persona della Trinità: e pertanto l’intelligenza filosofica
risulta monca e bisognosa della fede.
Per salvare l’uomo da questa situazione «nella pienezza dei tempi» il Verbo «si è fatto carne» nel
seno di Maria «ed abitò fra noi» e «per mezzo di lui venne la grazia e la verità»: infatti non solo riportò
l’uomo allo stato naturale d’origine, ma lo riempì di grazia 46. Il Verbo incarnato stesso è un libro, scritto
fuori e dentro (poiché è misteriosissimo, a causa del Mistero di unione fra Dio e Uomo), ma di lui parla in
generale la Scrittura: «come infatti l’arca culminava in un cubito, così tutte le parole della Scrittura in
questo Verbo abbreviato, cioè nato, morto […] e risuscitato» 47. Anche il libro della Scrittura è scritto
fuori (in quanto ha un senso letterale o esteriore) e dentro (in quanto ha un senso mistico), ma è sigillato,
così che l’interno è leggibile solo grazie all’Agnello immolato, che è degno di «prendere il libro ed aprirne
i sigilli»: infatti non si può comprendere la Scrittura se non in riferimento a Cristo morto e risorto.
I Filosofi (coi Patriarchi), i Giudei e i Cristiani sono dunque i tre destinatari della progressiva rivelazione
normativa di Dio; ma come ogni legge successiva toglie forza alla precedente, così ora che è stata
rivelata la legge di grazia, voler continuare a osservare le altre è come «voler tornare indietro in Egitto»:
come i primi cristiani chiamavano «giudaizzanti» i cristiani che persistevano nelle osservanze giudaiche,
così nel XIII secolo erano a volte chiamati «filosofanti» coloro che (come gli averroisti) anteponevano la
filosofia antica alla verità rivelata.
Mentre la filosofia cerca la certezza in sé, la fede la trova fuori di sé 48. La filosofia
è un domandarsi mediante la ratio, la teologia (a partire dalla fede) è un domandare a
Chi può e vuole rispondere (e previene addirittura la domanda, suscitandola), tramite
chi ne ha la rappresentanza, o auctoritas. Le stesse sono le domande fondamentali della
filosofia e della teologia, ma la filosofia le pone criticamente alla ragione stessa, mentre
la teologia le pone esistenzialmente e definitivamente a Dio tramite la Chiesa. A tali
domande la teologia trova risposta nella Scrittura e ne condensa il senso nelle formule
45 BONAVENTURA, In Hexaëmeron, 3.8.
46 Cf Don 1.5-8; Hex 3.10-21; In Lucam 24.58.
47 In Lucam 24.33.
48 Cf John Henry NEWMAN, Lettera al duca di Norfolk, 5 (trad. it. di Valentino Gambi, Paoline, Milano 1999):
«Tutte le scienze […] hanno la loro certezza in se stesse […], eccetto la scienza della religione […] il sentimento
del giusto e dell’ingiusto […] è il primo elemento».
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della fede, della speranza e della carità (ovvero il Simbolo, l’Orazione domenicale e il
Decalogo col comandamento nuovo, rispettivamente per le domande “Cosa debbo sapere,
sperare o domandare, e fare per vivere sempre?”), secondo una tradizione catechetica
iniziata nella prima età patristica e attestata in Agostino e in Tommaso.
Dal problema della vera filosofia rispetto alle diverse scuole filosofiche e dal problema
della via cristiana rispetto alle diverse religioni emerge in età patristica il concetto
che ne propone la sintesi come “vera religione” e come “filosofia cristiana” 49.
Ma lo schema del duplice verbo e quindi del doppio sapere può essere articolato
secondo tre modelli.
Secondo un primo modello (agostiniano, bonaventuriano, tommasiano…), che possiamo
chiamare “doppio in parallelo”, creazione e rivelazione, ragione e fede, filosofia
e teologia sono armonicamente corrispettive. Secondo una definizione classica
(formulata ad esempio da Tommaso) dei confini epistemologici dei due ambiti, ci sono
proposizioni appartenenti solo all’ambito filosofico, proposizioni appartenenti solo
all’ambito teologico (articula fidei e loro conseguenze) e proposizioni appartenenti ad
entrambi (praeambula fidei); le proposizioni teologiche non possono essere razionali
(ossia razionalmente dimostrabili come vere), ma debbono essere ragionevoli (ossia razionalmente
plausibili: quindi non possono essere dimostrate false e quindi gli argomenti
in contrario non possono essere stringenti).
Secondo invece un altro modello (scotista, occamista, luterano, ed anche galileiano)
che potremmo chiamare del “doppio in separazione”, i due saperi sono indipendenti
e separati; la libertà di Dio non consente di mettere limiti filosofici alla teologia; d’altra
parte, secondo il modello galileiano c’è una separazione di ambiti che non consente
contrapposizioni fra sapere sovrannaturale per fede e sapere naturale o scienza; ma questo
vale perché la scienza è quella fisica: se invece considerassimo la metafisica, ma soprattutto
la storia, possibilità di contrasto ci sarebbero, come ha ben mostrato Blondel.
Secondo infine un terzo modello (averroista, spinoziano, variamente importato nel
cristianesimo, ma non autenticamente cristiano), lo schema del “doppio” sarebbe solo
apparente: una sola è la verità; l’altra ne è solo la “divulgazione” o meglio “volgarizzazione”;
questo è il modello con esiti diametralmente opposti sia del razionalismo (averroista
e spinoziano…), per cui la sola verità sarebbe quella filosofica, sia del fondamentalismo,
per cui la sola verità sarebbe quella teologica.
§ 8. OTTAVA TESI. La struttura dilemmatica e paradossale della questione pone innanzitutto
la comprensione del cristianesimo come manìa o come follia.
La domanda sulla legittimità della filosofia cristiana può a questo punto essere riformulata
così: è possibile una intersezione tra le due parti (filosofica e teologica) dello
schema del doppio sapere?
Sul primo versante, il problema di fondo è la vita stessa: un caso serio ma non disperato
(attraverso la gratuità sensata del dono), oppure disperato, ma non serio
(attraverso la gratuità insensata della banalità dell’esistenza)?
49 Secondo questo schema, AGOSTINO compose il De vera religione e parlò di filosofia cristiana nel Contra Iulianum;
così, prima ancora, Crisostomo, similmente Evagrio Pontico e i padri del deserto.
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Sul secondo versante, il problema è l’interpretazione personale della proposta
evangelica: il cristianesimo, “manía” o “moría”? Del resto, secondo una delle versioni
del Kerygma originario, il fenomeno pentecostale fu letto come ebbrezza o come presenza
dello Spirito Santo; l’argomentazione petrina per escludere l’ebbrezza può essere
considerata l’atto di nascita dell’uso apologetico della ragione nella soluzione pragmatica
del dilemma insito nel paradosso cristiano.
Secondo una tradizione iniziata da Paolo (e che ha trovato grande enfasi filosofica
nell’Elogio della Follia di Erasmo), il cristianesimo sarebbe apparentemente “moría”,
ossia stoltezza, ma in realtà (ammessa la divina rivelazione) sapienza; mentre invece la
filosofia sarebbe apparentemente “sofía”, sapienza, ma in realtà (ammessa appunto la
divina rivelazione), stoltezza. Non si tratta di psicopatologia, ma di allargamento degli
orizzonti; onde l’impegno a “rendere ragione” di tale “stoltezza”.
Significativo invece è che per i primi critici “pagani”, il cristianesimo fosse
“manía” (così ad esempio Epitteto), ossia ostinazione ed esagerazione: i cristiani agirebbero
“per pura partigianeria e mera ostinazione” («katà psilèn parátaxin»), e non
“per un ragionamento, con nobiltà e senza tragedia” come i veri filosofi (secondo Marco
Aurelio); a tali accuse, sostanziali, seguivano e seguono altre legate al carattere paradossale
del cristianesimo e al suo conseguente fraintendimento. In particolare, al fraintendimento
della fede monoteistica, della liturgia sacramentale, della comunione e fraternità
ecclesiale, della duplice “cittadinanza” (ossia della distinzione della sfera della
coscienza personale e comunitaria dalla sfera pubblica statuale) e finalmente della nozione
di sovrannaturale (intesa come antinaturale), sono da ricondurre rispettivamente le
accuse di ateismo e superstizione, aberrazione rituale (le “cene tiestee” o cannibalche),
promiscuità (le “unioni edipiche” o incestuose), lesa maestà nei confronti dell’autorità
dello stato, misantropia 50.
In un certo senso, dovendo giudicare il cristianesimo è proprio l’ambivalenza dei
sospetti a destare sospetto: ateismo o superstizione (come sospettava la critica antica);
proiezione consolatoria e compensatrice, oppure introiezione repressiva e defraudatrice
(come sospetta la critica psicologica); religione ideata dai dominatori per tener buoni i
dominati, oppure dai deboli dominati per risentimento contro i forti dominatori (come
sospettano la critica sociale marxiana e quella nietzscheana)…; il cristianesimo può anche
essere stato occasionalmente l’una e l’altra cosa, ma non può certo esserlo costitutivamente.
§ 9. NONA TESI (TUTTA TEOLOGICA). La filosofia cristiana dal punto di vista teologico
cattolico (sia speculativo, sia soprattutto pratico) ha una molteplice funzione
positiva, in particolare nella elaborazione del progetto culturale di una università
ecclesiale degli studi e degli studiosi e del progetto educativo per la formazione di
quanti avranno responsabilità nella Chiesa.
Poiché, infatti, come acutamente notava Kant, «non si può imparare la filosofia:
tutt’al più si può imparare a filosofare», questo si può meglio fare alla luce del principio
50 Cf TACITO, Annali, 15.44.4; EPITTETO, Diatribe, 4.7.6; Marco Aurelio, Pensieri, 11.3.2; in generale cf (a cura
di Paolo Carrara), I pagani di fronte al cristianesimo. Testimonianze dei secoli I e II, Nardini, Firenze, 21990, p. 38-
39, 47, 106-107, 116, 144-147.
20
cristiano del “fare la verità nella carità”, ossia, secondo una bella espressione di Ireos
Della Savia, cercando di «mettere in comunione i valori di ogni differenza».
In questa prospettiva l’insegnamento filosofico deve essere fondamentalmente una
educazione all’interpretazione: infatti, parafrasando Ignazio, “ogni buon cristiano”, a
fortiori se filosofo, “dev’esser disposto a salvare l’affermazione dell’altro, più che a
condannarla, e se proprio non la può salvare, cerchi di capire come l’altro l’intenda; e se
la intende male, faccia di tutto perché ben intesa si salvi” 51. In questo senso, la filosofia
cristiana, proprio perché cristiana, non può disinteressarsi delle altre visioni del mondo:
“Se infatti salutate solo quelli che vi salutano, che merito ne avrete?”.
Se Leibniz, in base ad una (discutibile) concezione “digitale” della conoscenza,
auspicava il tempo in cui due filosofi che discutessero potessero dire: «Calcoliamo!»;
oggi noi potremmo più realisticamente auspicare di poterci sedere al tavolo per dire:
“Traduciamo!”.
Fatta salva la possibilità del paradosso di una rivelazione eterna nel tempo, da un punto di vista filosofico
non rimane che dialogare e discutere. L’interculturazione è resa possibile da un medium interculturale:
ma esiste un esperanto filosofico, che accomuni oggi tutte le culture, le religioni, le filosofie, come
la filosofia aristotelica corretta in chiave creazionista lo era nel tredicesimo secolo? Oggi non più: ma ci
può essere un accordo sui primi principi a partire da cui discutere del resto. Bisogna correre il rischio del
dialogo e dell’interculturazione, sulla base comune dei primi principi («in certis unitas»), pur nella tolleranza
per le diverse opzioni («in dubiis libertas») fondata non su un relativismo etico e culturale ma sul
rispetto oggettivo della dignità personale («in omnibus caritas»). D’altra parte, dialoga di più chi essendo
se stesso si confronta con gli altri, piuttosto che quanti rinunciando ad essere se stessi non si confrontano
con gli altri. Il dialogo si vede più dalle opere che dalle parole. La filosofia cristiana va difesa di principio,
anche se nel contatto con i non cristiani può essere tenuta nel sottofondo.
Ancor oggi, come ai tempi di Tertulliano, la filosofia cristiana teme una sola cosa:
di essere rifiutata senza essere capita o perlomeno ascoltata, e di essere fraintesa come
“manìa”, ossia fanatica follia) 52, anziché colta come ragionevole “morìa” (ossia come
tentativo di “render ragione” della apparente “stoltezza della ragione”, che però può far
allargare i paletti del pensiero e mostrare una sapienza più sapiente).
Ciò che d’altra parte rende i cristiani troppo spesso irrilevanti nella cultura è la loro
paura di essere irrilevanti: ciò li porta a compromettersi con il potere pur di assicurarsi
una presenza nella società (che sarebbe però solo nominale, in quanto svuotata di pregnanza)
o ad una dissimulazione nella mentalità dominante. La cultura cristiana troppo
spesso assomiglia alla manzoniana Perpetua, «celibe per aver rifiutato tutti i partiti, come
diceva lei, o perché non aveva trovato nessun cane che la volesse, come dicevano le
sue migliori amiche».
Sebbene il senso filosofico della filosofia cristiana si comprenda meglio se insegnata
e praticata in una università aconfessionale, e possibilmente accanto alle filosofie
ebraica, islamica, indù, buddhista, taoista e confuciana, tuttavia l’insegnamento e la pro-
51 Si tratta del celebre Praesupponendum, premesso agli Esercizi Spirituali: «Al fine che tanto chi dà gli esercizi
[…], quanto chi li riceve, maggiormente si aiutino e avvantaggino, si deve presupporre che ogni buon cristiano
dev’esser pronto più a salvare l’affermazione del prossimo, che a condannarla, e se non la può salvare,
ricerchi com’egli la intenda; e se la intende male, lo corregga con amore; e se ciò non bastasse, cerchi tutti i mezzi
convenienti perché, intendendola bene, si salvi».
52 In effetti anticamente questa era l’obiezione, ad esempio di Epitteto e Marco Aurelio; così pure le altre accuse
mosse ai cristiani dal mondo antico: lesa maestà (in realtà fraintendimento della secolarità), cene tiestee
(fraintendimento della sacramentalità), unioni edipiche (fraintendimento della comunionalità), ateismo
(fraintendimento della religiosità).
21
mozione della filosofia cristiana è indispensabile in un contesto teologico e in vista di
una formazione pastorale: questo potrebbe essere il progetto di una università ecclesiale.
In generale, una università (intesa come totalità articolata degli studi e degli studiosi)
ha due funzioni, quella di ricercare e quindi aumentare il sapere della cultura, e
quella di comunicare e quindi trasmetterlo e discuterlo nella comunità accademica e
scientifica, fermo restando che ogni università dovrebbe cercare di dedicarsi a quei settori
in cui potrebbe dare il meglio di sé ed essere così più competitiva rispetto alle altre.
Ebbene sia quanto alla prima sia quanto alla seconda funzione, per una facoltà ecclesiale
di filosofia il punto di forza potrebbe essere appunto il campo della filosofia cristiana.
Sant’Ignazio aveva fondato il Collegio Romano «sotto gli occhi del vicario di Cristo
» e «al centro della Cristianità» per formare a «sentire cum ecclesia» e a leggere «non
multa sed multum», «dando ordine all’esercizio, che è la cosa più valida per rendere gli
studenti davvero dotti», nella speranza che «la buona dottrina, degli autori tanto cristiani
quanto non cristiani, eventualmente rivista, si estenda anche al di fuori di essa».
L’importante è che negli studi ecclesiali si alimenti con rigore e onestà l’interesse
per l’uomo, così che lo studente, approfondendo la cultura e “allargando i paletti della
sua tenda” interiore, si prepari ad esercitare il compito di intellettuale nella società: infatti
(parafrasando Paolo) tutta la cultura prodotta dall’uomo “è utile a istruire, educare,
correggere, formare alla giustizia così che l’uomo [...] sia completo e ben preparato per
ogni bella impresa”.
Inoltre, dal punto di vista educativo, una facoltà ecclesiale dovrebbe formare i suoi
alunni cristiani non solo come intellettuali, non solo come credenti, e nemmeno solo
come intellettuali e credenti, ma anche e soprattutto come intellettuali credenti (si devono
insomma fare non due cose, ma una sola, nella distinzione senza separazione e
nell’unione senza confusione: ossia facendo del dogma calcedonese il paradigma culturale
cristiano per eccellenza).
Dal punto di vista teologico questa operazione può certamente essere propedeutica
e apologetica rispetto alla fede, ma da un punto di vista strettamente filosofico questo ha
una triplice valenza, secondo i tre valori della filosofia ancor oggi particolarmente attuali,
ossia la valenza dialogica, utopica e critica, che costituiscono rispettivamente
l’eredità ancor oggi condivisa della filosofia antica e di quella moderna.
Possiamo riassumere questa eredità filosofica nella educazione al fatto che “si può
pensare altrimenti”: questo sia col confronto con un pensiero concretamente “altro”,
mediante il dialogo, sia con lo sforzo di “sognare” una realtà idealmente “altra”, mediante
l’utopia; sia con il mettere in discussione i propri presupposti e le proprie convinzioni
senza dar nulla per scontato, attraverso la riflessione metodologica e critica.
Questo è compatibile con un concetto fondamentale del cristianesimo, quello del
carisma, ossia del dono dato ad alcuni per tutti, ai pochi per i molti. Proprio dell’amore
è infatti fare a persone diverse doni diversi, perché la diversità aiuti a costruire comunità.
La funzione dialogica della filosofia cristiana consiste nel preparare al dialogo fra
punti di vista: quello cristiano e quelli non cristiani (in quanto la differenza aiuta cia22
scuno a costruire la propria specifica identità e ad integrarla), ma anche fra quello filosofico
e quello teologico, contro i facili concordismi e gli ancor più facili unilateralismi.
La funzione utopica della filosofia cristiana consiste nel saper illuminare i problemi
del mondo attraverso il ricorso filosofico, e quindi condivisibile da tutti, alla questione
teologale cristiana. Al vagheggiamento di una realtà migliore (eutopia) si è unita la
messa in guardia di una realtà peggiore (distopia); la caratteristica cristiana è quella di
tenere unite le due cose e che declina l’utopia nel tempo attraverso la speranza. Fra i
due estremi dell’ottimismo (che spesso pare, come nota Schopenhauer, non solo falso,
ma anche irriguardoso per chi sta male) e del pessimismo (che spesso pare un “realismo
ben informato”), il cristianesimo offre la visione di un ottimismo tragico, o meglio di
una “divina commedia”, dove il brutto e deforme viene assunto per la migliore riuscita
della storia.
Per influire sulla cultura e sulla società bisogna sapere interessare tutti ai problemi
teologali presentati culturalmente e socialmente e bisogna preparare gli intellettuali cristiani
a saperlo fare.
Dal punto di vista etico e politico, una adeguata formazione eviterebbe gli estremismi
di quei cristiani che sono più radicali dei “no-global” e considerando il denaro come
“sterco di satana” trascurano che la loro stessa esistenza si conduce attraverso mediazioni
economiche.
Contrariamente a quanto comunemente si crede in ambito ecclesiastico, la questione
filosoficamente teologale non interessa soltanto i credenti in Cristo, ma anche e soprattutto
gli altri; i primi infatti hanno la fede cristiana e la filosofia cristiana è un di più;
ma per gli altri è veramente interessante perché è la possibilità di mettere in circolazione
certi contenuti cristiani al di fuori della cerchia strettamente credente.
Occorre dunque far ripensare i temi teologali, ma a tal fine occorre essere preparati,
perché non accada che come nei quartieri di un tempo l’edificio più bello era la chiesa,
in quelli di oggi il più brutto è ancora la chiesa, o non accada come in quella chiesa stupenda
di Firenze, in cui c’erano cartelli in tutte le lingue con su scritto “offerte”, ma
nemmeno un cartello per spiegare il senso teologico dei capolavori d’arte in essa contenuti.
Oltre a ciò, c’è una valenza etica e politica. La conoscenza amorosa riesce a capire
la realtà più in profondità. Secondo la narrazione evangelica, alla notizia che la cugina
anziana era incinta, Maria capì che doveva andare ad aiutarla; e a Cana solo lei si accorse
che mancava il vino.
Quanto alla funzione critica essa è molteplice.
C’è innanzitutto una funzione critica prolettica, e quindi formativa: la riflessione
teorica sulle condizioni di possibilità dell’esperienza se ben condotta è anche una preparazione
pratica ad ogni esperienza possibile, anche difficile. Finora non mi sono scandalizzato
di alcun fatto negativo, perché anche se non sempre lo ritenevo probabile,
tuttavia l’ho sempre saputo possibile.
In questo senso, la filosofia cristiana può svolgere un ruolo importante di proposizione
della filosofia non cristiana e anticristiana quale “advocatus diaboli” indispensabile
per la edificazione interiore. Dante presenta il diavolo come un gran logico (“Tu
non credevi ch’io loico fossi!”); e in effetti la filosofia può svolgere la funzione educativa
rappresentata simbolicamente dall’episodio delle tentazioni di Cristo nel deserto,
23
quasi anticipazione e soluzione di tutte quelle che sarebbero tornate “al momento opportuno”.
La presenza della filosofia nella filosofia cristiana, e del cristiano filosofo
come maestro di filosofia simpliciter aiuterà il cristiano discepolo ad affrontare serenamente
tutti i generi di obiezione alla sua fede. Infatti, il proporre la filosofia con tutta la
sua carica di aconfessionalità, se fatto con serenità dal maestro filosofo credente, aiuterà
il discepolo ad assimilarla positivamente.
È vero che lo studio in genere (e quello filosofico in specie) è in sé ambivalente:
come un bisturi chirurgico può servire a salvare una vita o a perderla. Tuttavia, ragionare
bene non può fare che bene.
C’è poi nella filosofia cristiana una funzione critica confermativa; chi è certo della
propria fede non ha paura di confrontarsi con chi non crede. Occorre accompagnare gli
alunni a portare la pecora nella gabbia del lupo senza timore, per confermare loro e per
smentire il sospetto contro la fede. Bisogna dare compattezza all’edificio della fede,
perché non solo per il filosofo, ma anche per il credente il primo dovere è la coerenza
(che per il filosofo non è solo dottrinale, ma exercita ossia col vissuto; e per il credente
non è solo reale, ma anche personale, come fedeltà a una Persona).
C’è poi una funzione critica di smascheramento, contro i virus che infestano la fede
e la ragione; in particolare la misologia, che oggi si ripropone come fondamentalismo e
integralismo in quasi tutte le grandi religioni. Tra i virus, occorre guardarsi soprattutto
dai cavalli di Troia; in ogni epoca storica, quando ci si è scagliati contro veri o presunti
avversari, si è spesso finito per accogliere nella propria dottrina princìpi da loro inconsapevolmente
desunti (così fecero i neoscolastici nei confronti del razionalismo moderno).
Ebbene, in era post-moderna il cavallo di Troia è costituito dall’ambivalenza del
nichilismo e del connesso “pensiero debole”.
Se il nichilismo di senso consiste nel non trovare alcun senso nel mondo, ma nel
darlo soggettivamente, ebbene molta della fede e della vocazione dei credenti è di tal
tipo, ossia gratificante, soggettivistica. Allora la fede non è più fiducia certa, ma
“credere di credere”.
Inoltre, mentre il pensiero ontologico è espresso dalla celebre affermazione “vero è
dire essere ciò che è e non essere ciò che non è”, viceversa il pensiero debole consiste
nel ritenere che “non lo dico perché è vero”, ma “è vero perché lo dico”; ma allora il
pensiero autoritario che spesso nella Chiesa si afferma in tempi di relativismo non è altro
che il rovescio della medaglia: infatti non dice che “lo dice il magistero perché è vero”,
ma che “è vero perché lo dice il magistero”.
L’ultima funzione critica è quella di garanzia di trasparenza e correttezza
dell’interazione fra ragione e fede, per evitare i trucchi da prestigiatore che tira fuori dal
cappello speculativo il coniglio dogmatico (che prima vi aveva nascosto dentro), e lo
sottrae poi al critico colpo di pistola. Ebbene, non incorre in scorrettezza il filosofo che
pur disponendo di bussola segreta, rifaccia i calcoli della rotta in base alle stelle che
tutti possono osservare. Questo deve fare la filosofia cristiana.
Un’ultima osservazione. Spesso i filosofi cristiani sono più realisti del re quando
parlano dell’idea di rivelazione, come se si trattasse di una forma di conoscenza totalmente
diversa da quella abituale. Ebbene, perlopiù il profeta non sa di essere profeta. E
dunque lo stesso testo scritturale è frutto del riconoscimento ecclesiale quanto al canone
più che della consapevolezza degli agiografi. L’ispirazione, in senso cristiano comunemente
accolto, non è altro che la garanzia che quello che gli agiografi hanno scritto con
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il loro sforzo interpretativo e riflessivo (ossia con la ragione) ha un inerrante senso salvifico.
Similmente l’atto di fede del credente non è normalmente frutto di una evidenza
immediata, ma è il risultato di una cooperazione tra ragione e volontà, che per la dottrina
cristiana, è anticipata e sostenuta dalla grazia, ma che non toglie mai il lavoro della
ragione, sicché il credente può come Paolo dire: “So a chi ho creduto”.
Di conseguenza, ad un’analisi più approfondita, ragione e fede non sono due funzioni
separate, ma sono due esercizi della stessa facoltà (in questo, l’immagine delle due
ali, per quanto suggestiva, è – come tutte le immagini – carente).
A queste funzioni della filosofia cristiana se ne aggiunge una ulteriore, quella pedagogica,
nel senso di preparazione evangelica o di propedeutica a Cristo.
Secondo Paolo, la Filosofia è per gli etnici ciò che la Toràh è per i Giudei: ne ricaviamo
che entrambe (e non solo la Torah) hanno dunque la funzione di pedagoghi che
permettono di accedere alla scuola di Cristo: la Toràh tramite l’imposizione di una Legge
tanto necessaria quanto impossibile, e la Filosofia tramite la riflessione sull’implosione
delle modalità (del possibile, del reale e del necessario) nella categoria del dono.
La fenomenologia del dono ci mostra come non ci sia mai data direttamente
l’esperienza della pura gratuità: non a caso lo stesso termine latino ‘munus’ significa
tanto dono quanto compito e si riconduca alla radice verbale dello scambio. Nessun
uomo può essere veramente e totalmente generoso: lo insidia l’abisso dei doppi pensieri.
Solo attraverso l’esperienza dello scacco e della “croce” l’uomo può intuire la dimensione della gratuità e della sincerità della generosità.
La filosofia come necessario ma impossibile Amore della Sapienza è condizione
per arrivare a capire la Sapienza dell’Amore, che allarga i paletti della mente dando luce a ciò che appariva semplice follia.
Occorre riempire d’acqua le giare fino all’orlo, perché si possa ricevere il buon vino;occorre avere ed usare le reti fino a riempirle, per poterle abbandonare con senso;occorre aver prima acquistato tutto e fatto tutto per capire che nulla serve e che noi stessi siamo servi inutili. Solo allora capiremo che cosa significa essere chiamati non servi,ma amici.

¿QUÉ PENSAMOS? EL MUNDO COMO OBJETO DEL PENSAMIENTO

Esta es la pregunta sobre el objeto del pensamiento. El objeto del pensamiento es el mundo y todo lo que hay en él, incluido el hombre.
Pensamos el mundo. Pero, ¿qué es el mundo? Una primera respuesta provisional puede ser ésta: el mundo es como un recipiente, es el lugar donde vivimos nosotros y donde están las otras cosas y los otros seres vivos.

Otra respuesta: usamos la palabra mundo como sinónimo de conjunto o de clase. Así, decimos el "mundo" de los famosos, el "mundo" de las ideas, el "mundo" del confort, el "mundo" de las cosas sensibles.
En general, cotidianamente, se utiliza esta expresión con el sentido que hemos visto hasta aquí.

Pero es posible pensar el mundo de otra forma. Es posible pensar el mundo globalmente, como una estructura, como la interrelación de todo aquello que es y que constituye la realidad. Pensar el mundo en este sentido es formarse una idea acerca de él; una idea a partir de la cual se pueda pensar cada parte de la estructura. Esta idea, este "punto de vista" desde el cual interpretamos la realidad es lo que se llama concepción del mundo.
Las concepciones del mundo

Podemos decir que "filosofar" es pensar el mundo desde un lenguaje previo a partir del cual abordamos cualquier componente de ese mundo. Ese lenguaje previo es la plataforma del pensamiento, y no es obra de un individuo, sino que se gesta dentro de una cultura, un grupo o un sector social específico. Confluyen en esta formación aportes de distintas vertientes: sentido común, creencias populares, religión, fragmentos de conocimientos aportados por la ciencia.
La unificación de todas estas formas parciales de pensar la realidad da un doble resultado: primero se difunde por toda la comunidad que conforma ese grupo o sector de la cultura bajo la forma de un "esquema conceptual". Este esquema conceptual se instala en ella para servir de lente a través del cual se interpreta todo lo que pasa. Segundo, se constituye en una guía para la acción de ese sector. Es decir, las acciones de todos y cada uno de los miembros de una comunidad están teñidas con el color del cristal con que esa comunidad, globalmente, interpreta y "lee" los sucesos del mundo.

De lo dicho hasta aquí podemos sacar dos conclusiones:
a) Si la concepción del mundo es el patrimonio de grupos o sectores socioculturales en el seno de los cuales se gesta, entonces no hay una, sino varias concepciones del mundo, todas ellas de valor relativo y de alcance parcial y limitado. Como dice Max Scheler: "Pero justo esto puede ser algo radicalmente distinto para diversas colectividades y para las mismas colectividades en diversos estadios de su evolución".

b) En cuanto guía para la acción de los miembros de esas colectividades o grupos, la concepción del mundo, en su lento e imperceptible proceso de formación, se presenta como el instrumento apto para la interpretación de acuerdo con las necesidades e intereses de la comunidad que le da forma.
Las concepciones del mundo no son neutrales; su finalidad expresa "en cada caso tan sólo el relieve y el fondo de la política de intereses futuros que trata de justificar cada una de estas típicas ideologías".

Toda concepción del mundo posee tres características, dos de ellas vinculadas al proceso de formación teórica de cada idea del mundo; la tercera relacionada con el carácter normativo y por lo tanto práctico de su inserción en la comunidad:

1) Afán de saber integral: En tanto que recoge elementos provenientes de los distintos grupos componentes de una misma cultura o sociedad (saber popular, mitos, religión, ciencia), pretende dar respuesta, desde su óptica, a cualquier tema o situación que aborde.

2) Referencia a la totalidad: Como construcción teórica, ideológica, cada concepción del mundo intenta tener acceso a una visión totalizadora de la realidad.

3) Solución de los problemas del sentido del mundo y de la vida: Este aspecto está ligado a la praxis de cada modelo de interpretación. Una vez difundido entre toda la comunidad, sus miembros intentan resolver situaciones y problemas usando como telón de fondo la concepción del mundo que les es propia y tomándola como guía de lectura de los procesos del mundo y de la vida.

Como cualquier construcción del pensamiento, las concepciones del mundo llevan implícitos los riesgos propios de la actividad de pensar. Uno de esos riesgos está en la posibilidad de pretender hacer de una idea que debe ser flexible y cambiante, algo rígido y dogmatico. Esta posibilidad arrastra a sus seguidores al fanatismo y por lo tanto a la ruptura de lazos y vínculos con otras formas de interpretación y, lo que es peor, al atrofiamiento de ese instrumento que sirve para tratar de entender la realidad, y no para encasillarla.

El segundo riesgo es el que resulta de entrar en contacto con otras concepciones del mundo. La solidez y consistencia de algunas (o su modalidad prepotente), muchas veces las hacen irrespetuosas de las otras, y por lo tanto pretenden erigirse en superiores y dominantes, en vez de presentarse como alternativas y solidarias en un intercambio dialógico.
A lo largo de la historia del pensamiento hubo intentos de sistematizar, sintetizar y clasificar las concepciones del mundo. Si bien puede parecer esquemático, resulta útil para la comprensión del tema reconocer dos formas interpretativas del mundo que engloban a todas las demás: esas dos formas son el idealismo y el materialismo.

Héctor Mandrioni expone así las características generales de uno y otro: "Para el primero (el idealismo), la historia del mundo con sus cambios ruidosos y la colosal estructura funcional del universo material, sólo constituyen el ropaje inconsistente y efímero, la figura fugitiva y plástica de la única realidad estable, el 'pensamiento'. Este es la verdadera fuerza tejedora de todo lo que es y acontece. Para el segundo (el materialismo), el pensamiento y la verdad son una simple superestructura o excrecencia de la verdadera fuerza constructora de todo lo real, a saber, las energías materiales".

Idealismo y materialismo son reducciones extremas. Dentro de cada una de ellas existen matices que distinguen épocas y lugares. Por otra parte, siendo la realidad dinámica y cambiante, también cambian como resultado de ese dinamismo los modos de interpretar el mundo. Esos cambios se producen lenta y gradualmente, y no de manera abrupta. Las modificaciones de las concepciones del mundo (por lo tanto de los "esquemas conceptuales") son lentas, por ser éstas globales y omniabarcantes. Los cambios mas rápidos y bruscos se producen en fragmentos o partes de la realidad que aquella pretende explicar e interpretar. Es evidente que las ciencias, el lenguaje, las costumbres, experimentan mutaciones veloces. Así, "si la forma de moverse en la historia, la idea del mundo (...) es la más lenta y más pesada en el tiempo, el movimiento del saber parece acelerarse con la artificialidad de una de sus formas."

¿QUÉ ES CONOCER?

Desde el punto de vista de la filosofía clásica, el conocimiento debemos entenderlo como proceso. Ese proceso se sustenta en dos grande pilares: el primer gran pilar es la experiencia. Aun cuando el término "experiencia" tiene otros significados, a los efectos de esta explicación la entendemos como "la aprehensión sensible de la realidad"; como un modo de conocer algo inmediatamente antes de todo pensamiento al respecto. Sin la experiencia no hay pensamiento posible.

Este primer escalón en el proceso de conocimiento es de carácter concreto y sensible. Básicamente, cualquier conocimiento nuestro comienza con una sensación (de un color, una forma, un sabor, un sonido, etc.) y continúa en nuestra percepción, que es la integración, la organización de esa sensación. Después, mediante una representación, traemos a nuestra mente esa situación que, sin convertirse en una idea, se constituye en una imagen.

A partir de aquí, el otro gran pilar, el pensamiento, elabora todo ese material sensible mediante procesos de generalización y abstracción. Produce ideas que se traducen en conceptos; excluye diferencias y retiene lo esencial. Esos conceptos, relacionados unos con otros, originan los juicios; el encadenamiento de juicios nos permite confeccionar razonamientos.

Pero, además de esos procesos mentales existen otros que, basados en estos, son más complejos. Por ejemplo, el análisis nos permite descomponer aquella realidad asimilada como un todo en sus partes constitutivas, mientras que la síntesis elabora la integración de los elementos en un proceso inverso al anterior.

A partir de estas dos operaciones podemos clasificar, distinguir, ordenar, etc. en suma, podemos pensar para conocer aquello que se presentaba en principio como concreto sensible. De esta manera pasamos de un conocimiento experiencial y sensitivo a un conocimiento cualitativamente diferente.

Esto que acabamos de decir no es más que una descripción generalísima, algo así como el armazón de la estructura del conocimiento. A partir de ella nos podemos hacer muchas preguntas que nos permitirán profundizar el problema del conocimiento. Por ejemplo: ¿Cómo conocemos? ¿Cuáles son los fundamentos del conocimiento? ¿Qué es lo que se conoce? ¿Qué tipos de saberes se derivan de este proceso?
Tenemos entonces una naturaleza humana, un mundo, y entre ambos algo que se llama conocimiento, no habiendo entre ellos ninguna afinidad, semejanza o incluso lazo de naturaleza... Vemos que entre el conocimiento y las cosas que éste tiene para conocer no puede haber ninguna continuidad natural. Sólo puede haber una relación de violencia, dominación, poder y fuerza, una relación de violación. El conocimiento sólo puede ser una violación de las cosas a conocer y no percepción, reconocimiento, identificación de o con ellas.
Michel Foucault, El discurso del poder.

Conocimiento con fundamentos
El periodo premoderno y la modernidad se caracterizaron por tratar de distinguir el conocimiento auténtico, el saber verdadero y el conocimiento objetivo de las simples opiniones, las conjeturas o las visiones subjetivas del mundo y de las cosas. Para que esto fuera posible era necesario explicar la esencia del conocimiento. Y explicar la esencia del conocimiento equivalía, en ambos casos, a buscar fundamentos seguros. Dicho brevemente, el problema del conocimiento tanto en la premodernidad como en la modernidad, con las diferencias propias de cada período, consistió en hallar los fundamentos del conocimiento.

El problema básicamente estaba planteado en estos términos: si queremos conocer, entonces queremos encontrar la verdad. Ahora bien, sólo nos encontraremos frente a un conocimiento verdadero cuando podamos fundamentar ese conocimiento de manera tal que su verdad se encuentre fuera de toda duda. De lo que se trata, entonces, es de encontrar cuáles son esos fundamentos seguros que hacen posible el conocimiento y la verdad.

A lo largo de la historia de este problema, en cada período se propusieron distintos fundamentos seguros para poder explicar cómo era posible el conocimiento. Se trataba en cada caso de encontrar la fuente del conocimiento. Así, esquematizando un poco las cosas, diremos que en ambos períodos el fundamento del conocimiento estuvo ligado a lo que podemos llamar el modelo de la revelación. Lo que cambiaba en cada período era la fuente de la revelación. Mientras que en la premodernidad esa fuente era la revelación teológica o religiosa, en el periodo moderno la revelación estuvo depositada en el modelo de la racionalidad expuesto en sus distintas variantes.

Lo que diferencia las distintas versiones del modelo de revelación es la fuente del conocimiento (teológica o racional) y lo que las une es que la verdad, una vez revelada, es inmodificable y pasa a estar fundamentada de una vez por todas y entonces se mantiene ajena y alejada de cualquier crítica posible.

En cada uno de estos períodos el modelo de la revelación produjo consecuencias significativas.

En el periodo premoderno, los fundamentos del conocimiento se convirtieron en dogmas, es decir, en puntos del conocimiento incuestionables que coincidían en general con las revelaciones de la fe. Esta situación hizo necesaria la aparición de "especialistas" que interpretaran los textos, dando lugar a la formación de grupos de expertos en religión o en "visiones del mundo" que se adjudicaban el monopolio de la interpretación. En síntesis, el caso estaba planteado de este modo: hallazgo del fundamento - dogmatización del conocimiento- necesidad de expertos en la interpretación - configuración de una jerarquía de intérpretes.

Durante la modernidad, el modelo de la revelación continuó vigente. Sólo se sustituyó la infalibilidad de la verdad religiosa revelada por la verdad racional. La racionalidad se convirtió en el nuevo modelo teológico. La revelación fue naturalizada y democratizada, es decir fue despojada de su carácter sobrenatural pero se la desplazó al lugar de la intuición individual o a la observación empírica. La revelación cambia de sentido. Ya no es revelación en el sentido religioso sino revelación en el sentido de evidente: la verdad esta "ahí", en la naturaleza; solo hace falta abrir los ojos para aprehenderla mediante la observación o captarla mediante los recursos del intelecto. La naturalización y democratización de la idea de la revelación en la teoría clásica del conocimiento liberó al conocimiento de los lazos tradicionales y lo convirtió en una revelación de la Naturaleza por medio de la razón o de los sentidos.

La modernidad orientó el modelo de la revelación racional en dos direcciones, cada una de las cuales ponía el acento en un aspecto diferente del nuevo fundamento de la época.

Una dirección fue la dirección del intelectualismo: el intelectualismo parte de la soberanía de la razón, de la intuición intelectual y del primado del saber teórico. La preocupación fundamental de los intelectualistas era liberar a la razón del papel de control de la experiencia. Sólo les interesaba llegar a la certeza mediante la pura intelección de la razón.

La otra dirección fue la dirección del empirismo clásico: el empirismo puso el acento en la observación de los fenómenos, en el valor de la percepción y en la primacía de los hechos empíricos. La versión empirista del modelo de la revelación depositaba toda la confianza en el método inductivo cuyo punto de partida es la observación y la medición exacta de los fenómenos. Por otra parte, la confianza en la percepción se presentaba como un medio fiable para el acceso inmediato a la realidad y a la certeza.

En resumen, tanto la premodernidad como los comienzos de la modernidad sentaron las bases del conocimiento en dos pilares: 1) la búsqueda de un fundamento seguro e incuestionable que sirva como punto de partida para el acceso a la verdad y 2) la construcción del modelo de revelación que adquirió en cada etapa un perfil fundamentador diferente: el teológico y el racional.

Los límites de la búsqueda de fundamentación
La búsqueda de una fundamentación segura e indubitable para el acceso al conocimiento trajo aparejados los siguientes problemas:
1) en primer lugar deben haber dos tipos de conocimientos: unos conocimientos son fundamentados por otros conocimientos que son fundamentadores;
2) en segundo lugar, si se pide para todo una fundamentación, entonces debe pedirse también una fundamentación para los conocimientos que juegan el papel de fundamentadores.

Ahora bien, ¿cómo es posible fundamentar lo que justamente no admite fundamentación y se propone como punto de partida de todo conocimiento ulterior? Este problema ofrece tres alternativas de solución diferentes:

a) Un regreso al infinito. Consiste en remontarse hacia atrás en la búsqueda de un fundamento que sirva para fundamentar cualquier conocimiento. Esta solución es impracticable porque nunca nos permite acceder a un último fundamento seguro.

b) Un círculo lógico en la deducción. En el procedimiento de fundamentación se recurre a enunciados que ya se habían mostrado como enunciados que requieren fundamentación y se los utiliza como punto de partida para deducir otros conocimientos. El problema es que los enunciados que ahora fundamentan también debieron ser fundamentados.

c) Una interrupción del procedimiento. En un punto determinado, mediante una decisión arbitraria, se detiene la búsqueda del fundamento último.

La primera alternativa no parece una buena solución al problema de la búsqueda de fundamentos porque es impracticable. La segunda es una variante de la tercera que, en definitiva, es la única que puede ponerse en práctica. Podríamos decir que, en cualquier caso, la búsqueda de fundamentación se detiene siempre mediante una decisión arbitraria de quien debe fundamentar sus conocimientos. En definitiva, si se quiere una última seguridad, la única posibilidad es la de obtenerla mediante la toma de una decisión. Aquí el conocimiento cede su lugar a la acción.

La razón crítica
Dentro del ámbito de la modernidad se realizaron intentos para desalojar del centro de la escena los criterios fundamentadores y dogmáticos del conocimiento. Los filósofos de la razón crítica con Popper como uno de sus últimos exponentes, han puesto en evidencia dos cuestiones que debilitaban todos los procedimientos (tanto teológicos como intelectualistas o empiristas) de la búsqueda de fundamentación.
En primer lugar, como ya se dijo, una de estas cuestiones es que la búsqueda de un conocimiento último que oficie de fundamento es siempre el producto de una decisión arbitraria que detiene la búsqueda en el punto que más conviene para sostener los conocimientos.

En segundo lugar, los filósofos que cuestionaban la búsqueda de fundamentos a cualquier precio observaron que en esta búsqueda había mas una tendencia a encontrar certezas que a encontrar la verdad. Y agregaron que alii donde se instalan los dogmas triunfa la certeza y se obstaculiza el camino para lograr el conocimiento de la realidad.

¿Qué propusieron estos filósofos a cambio de la búsqueda de fundamentaciones?

En primer lugar abandonar la búsqueda de un fundamento seguro que nos provea de certezas en el conocimiento.

En segundo lugar, sustituir los fundamentos y los dogmas por el planteo de hipótesis y el sometimiento a examen de toda hipótesis.

En tercer lugar, dejar de lado la voluntad de certezas, sustituyéndola por la exigencia de falibilidad, es decir aceptar la posibilidad que las hipótesis sometidas a examen puedan estar equivocadas, deban ser reemplazadas por otras hipótesis y, por lo tanto, admitir que en el camino de la búsqueda de la verdad puedan instalarse el error y la rectificación como un paso previo y necesario.

En cuarto lugar, el racionalismo crítico tiende al conocimiento del mundo real e invita a elaborar teorías que posean la mayor fuerza de explicación y que, al mismo tiempo, se superen unas a otras en el acercamiento a la verdad acerca de la realidad, aunque nunca alcancen la certeza. El peligro de elaborar una sola teoría radica en que los hechos se utilizan para ilustrar y apoyar lo que la teoría dice y no para procurar poner en práctica el falibilismo que la razón crítica propone.

En síntesis, la propuesta de la razón crítica busca superar la pasividad que domina en la interpretación de la teoría clásica del conocimiento. En lugar de los fundamentos, los dogmas y las certezas, esta línea de pensamiento presenta el proceso de conocimiento como una actividad humana que articula teorías expuestas en construcciones simbólicas, con experimentos del pensamiento y de la realidad. El conocimiento pasa a ser, entonces, un ida y vuelta entre la razón y la experimentación; se mueve entre la construcción y la crítica. El conocimiento es, en definitiva, una parte, un factor constituyente de la naturaleza humana.

Conocimiento sin fundamentos
Todas las versiones recogidas en la historia de la filosofía hasta el siglo XIX, admiten implícita o explícitamente que el conocimiento está inscrito en la naturaleza del ser humano. Aún cuando algún filósofo acentúe la importancia de los fundamentos, otro ponga el acento en la hegemonía de la razón, o bien algún otro cargue las tintas en el papel que cumple la experiencia en el proceso de conocimiento, ninguno parece poner en duda la pertenencia del conocimiento a la naturaleza humana. Es como decir que conocer es parte de la esencia del ser humano.

A partir del siglo XIX se producen nuevas formas de interpretar la realidad y con ella al sujeto de la historia. Tales formas de pensar el problema permiten volver a plantear cuestiones como estas: ¿Por qué conoce el ser humano? ¿Cuál es el fundamento de eso que llamamos conocimiento? A partir de ese momento, la respuesta a esta pregunta no se redujo a interpretar la existencia del ser humano como precedida de una esencia en la cual estaban inscritas todas sus dotes genéricas, entre ellas la facultad de conocer.

El evolucionismo biológico, la importancia asignada al estudio de la historia, y la comprensión antropológica del hombre como inserto en prácticas socio-culturales constantes, permitieron elaborar respuestas que contemplaron perspectivas más amplias sobre estas cuestiones, si bien luego esa amplitud inicial se tradujo en nuevos reduccionismos. Aspectos biológicos, históricos o sociológicos sirvieron para intentar nuevos modos de interpretación.

Desde estas perspectivas el ser humano no traía consigo la facultad de conocer, sino que esta actividad era el resultado de luchas y conflictos de distinto orden: conflictos biológicos a nivel de los instintos y, posteriormente, conflictos políticos a nivel socio-histórico, donde aparecen disparidades o asimetrías en las relaciones de fuerza.
El resultado de estas luchas, la resolución de esos conflictos generaron en el hombre esa necesidad de establecer relaciones con objetos externos a él como una forma de imponer y de imponerse normas, reglas, leyes. Las consecuencias de estas maneras de interpretar la condición humana son tan polémicas como interesantes.

Conocer y saber
En base a esos antecedentes, Michel Foucault (inspirado en Nietzche y en Heidegger) propone una modificación sustancial en la interpretación tradicional del conocimiento. En lugar de hablar de "teorías del conocimiento", él prefirió elaborar una Arqueología del saber.

¿En qué consiste esta Arqueología? En principio hay que decir que no es una teoría del conocimiento. La Arqueología no se ocupa o no trata de conocer que son "las cosas en sí". Ahora podemos preguntarnos: ¿con qué instrumentos se lleva a cabo esta crítica del conocimiento? Y además ¿sobre qué dominios del conocimiento recae?

Muy esquemáticamente diremos que la Arqueología se sirve de un instrumento y que con él reestructura tres nociones fundamentales de la teoría del conocimiento tradicional. El instrumento es el análisis de los discursos, y los conceptos o aspectos sobre los cuales recae ese análisis son: el conocimiento, el saber y la verdad.

a) El discurso: Dijimos que la Arqueología no se ocupa de las cosas en sí. Agregamos ahora que aquello que le interesa a esta crítica llega hasta la cosa tal como se manifiesta, y en el acto de ser dicha; esto es, llega hasta el discurso. Entonces su objeto es el discurso que, sin ser una "cosa", es "algo". Podríamos decir de él que es un "material incorpóreo", una relación entre enunciados. Pero ¿cómo lo reconocemos?, ¿cómo damos con él?

Al discurso se lo reconoce por sus efectos. Estos efectos son materialidades de significación (el discurso es cualquier cosa material provista de significado), de exclusión (con lo dicho siempre queda fuera lo que dejo de decir) y de dominación (con los discursos se imponen criterios y se establecen relaciones asimétricas en distintos ordenes).

Con el análisis del discurso se busca que la cosa se explicite a sí misma: que se diga. El discurso muestra que no se habla como se ve. Por eso, la Arqueología se detiene en la superficie de lo dicho, porque es lo único que cuenta. Más allá del discurso no hay nada. Y en esta constatación radica justamente la eficacia del discurso: si más allá de lo dicho no hay nada que encontrar, entonces, quien elabora el discurso dominante organiza una aprehensión de lo inteligible, organiza una manera de entender lo que pasa.

b) El saber: El tema central de la arqueología es el saber. Es a esa instancia a la que se busca acceder con el análisis del discurso. Podemos definir el saber, tal como se entiende en este contexto, como un complejo de elementos discursivos (enunciados, relaciones entre enunciados) y no discursivos (prácticas institucionales, sociales e ideológicas). Explicaremos esto un poco más.
El saber no es lo mismo que "lo que se conoce". Entendido como un complejo de elementos discursivos, el saber es generador de una práctica ejercitada al nivel de los discursos. Las conceptualizaciones elaboradas a ese nivel son "activas". Esto significa que desde la producción del discurso se elabora una manera de entender el mundo y las cosas. Y como las prácticas discursivas son dinámicas e históricas, el saber es la forma en que se entiende el mundo en cada momento histórico; es una construcción histórica generada a partir de los discursos. En definitiva desde esa práctica se reorganiza la experiencia. Esa reorganización de la experiencia es aquello que se conoce, o que puede conocerse (recordemos que uno de los efectos de los discursos es la exclusión, y si hablamos de lo que puede conocerse, queda implícito aquello a lo cual no se puede acceder). Por lo tanto, en esta interpretación el conocimiento está subordinado al saber. Pero ¿qué debemos entender aquí por conocimiento?
c) El conocimiento: Desde la Arqueología, el conocimiento es un tipo de violencia ejercida sobre las cosas. ¿Por qué es un tipo de violencia? Porque la práctica discursiva, como la hemos visto hasta aquí, "fuerza" a las cosas a ser del modo que el discurso dominante las organiza. El efecto de esto es sorprendente, porque entre el discurso que produce conocimiento y su objeto real no existe identidad ni semejanza. Esto tiene algunas derivaciones significativas. En primer lugar, esta postura rechaza la idea del conocimiento como representación o como reproducción del objeto en el sujeto. Lo dicho no representa ni reproduce ningún contenido externo; no establece ninguna correspondencia necesaria entre el discurso y lo aludido en él. En este sentido el conocimiento no tiene ningún referente en la realidad exterior. Por eso decíamos que el conocimiento está subordinado al saber. Conocer es producir las condiciones para comprender las cosas. De aquí se deriva la segunda cuestión: si el correlato de un enunciado no es ninguna cosa exterior (ningún referente), lo único que genera el discurso es un conjunto de reglas que posibilitan la aparición de lo cognoscible. En otras palabras, el correlato del discurso son las reglas que el mismo produce, para que se pueda "entender" lo que ocurre. Tercera cuestión: si el conocimiento es una producción, nada que se conozca puede ser estable o eterno. No hay contenidos de conocimientos fijos o inmóviles. Conocer será, entonces, dejar que la cosa "se diga", se explicite a sí misma, según el saber histórico. En síntesis, el conocimiento es un sistema práctico e ideológico de apropiación de conceptos y enunciados dentro de un saber.

d) La verdad: Tal vez el concepto de verdad sea uno de los mas celosamente custodiados por la teoría del conocimiento tradicional. Sin embargo, aquí queda modificado sustancialmente su sentido. La verdad deja de ser la adecuación entre el intelecto y el objeto. Y esto es así porque veíamos cuando hablábamos del conocimiento que no hay reglas de comprensión expuestas por el discurso. Por lo tanto, la verdad será una construcción, un objeto, que incluye una práctica social y el ejercicio del poder.

En síntesis, el programa de la Arqueología del Saber de Michel Foucault pretende ser una actividad orientada a exhibir la eficacia del discurso dentro del conjunto de prácticas sociales realizadas en el eje "discurso-saber-poder".

De esta forma, ese programa se traduce en una crítica de conceptos y posiciones gnoseológicas tradicionales, tales como conocimiento y verdad. El conocimiento queda subordinado al saber, es un producto de la actividad discursiva y se constituye en un sistema de apropiación del mundo cuya táctica está orientada a permitir un determinado dominio social a través de la construcción de la verdad.
En realidad hay dos historias de la verdad. La primera es una especie de his¬toria interna de la verdad, que se corrige partiendo de sus propios principios de regulación: es la historia de las ciencias. Por otra parte creo, que en la sociedad, o al menos en nuestras sociedades, hay otros sitios en los que se forma la verdad, allí donde se define un cierto número de reglas de juego, a partir de las cuales vemos nacer ciertas formas de subjetividad, dominios de objeto, tipos de saber y, por consiguiente, podemos hacer a partir de ellos una historia externa, exterior, de la verdad.
Michel Foucault
El discurso del poder.

Conocimiento contingente y pragmático
Todas las posiciones clásicas acerca del conocimiento, incluida la posición que sostiene la razón crítica, aceptan, explícita o implícitamente, que la mente funciona como un espejo en el que la realidad puede reflejarse fielmente utilizando determinados procedimientos (los procedimientos del intelectualismo, los procedimientos del empirismo o los procedimientos del criticismo).

Todas estas líneas de pensamiento se basan en dos suposiciones: por un lado, aceptan implícitamente que las personas son portadoras de una mente capaz de reflejar fielmente cualquier cosa externa o interna con la que mantienen algún vínculo perceptivo Por otro lado suponen que hay un mundo real independiente del sujeto que conoce y que ese mundo real es cognoscitivamente accesible y agotable. Pero, como dice Richard Rorty, ni la mente es un espejo en el que la naturaleza puede ser reflejada, ni esta naturaleza es una entidad que se aprehende "tal cual es".

¿Cómo es el conocimiento desde la perspectiva relativista y pragmática que se ha desarrollado en la última parte del siglo XX, sobre todo en el ambiente filosófico norteamericano?
En primer lugar, el conocimiento es siempre inferencial. Un conocimiento inferencial es un conocimiento en el que siempre hay que argumentar y elaborar razones para demostrar que las cosas son como se dice que son. Lo que conocemos no inferencialmente (sin elaborar procesos argumentativos o dar razones), es todo aquello sobre lo cual no necesitamos hacernos preguntas porque nos resulta previsible.

Lo que "ya conocemos" no lo cuestionamos porque forma parte de nuestro bagaje de saberes socialmente asentados y aceptados. Esto quiere decir que lo que en un momento fue necesario explicar mediante argumentos como cualquier otro conocimiento, hoy resulta "aceptable a simple vista" y eso nos hace suponer que lo conocemos porque estamos directamente enfrente del fenómeno. Entendemos de qué se trata porque en nuestro medio social, todos entienden más o menos lo mismo cuando están frente al mismo fenómeno.

Esto significa que el conocimiento es, por un lado, un producto cultural generado en el intercambio conversacional e intersubjetivo de los miembros que participan de esa cultura y por otro lado, el conocimiento es justificable con razones.

Desde este modo de ver las cosas, el conocimiento seria una cuestión de acuerdos entre los miembros de una comunidad, acerca de hechos o estados de cosas, logrados mediante la elaboración y exposición de razones.

Siguiendo con esta misma línea de razonamiento, el conocimiento científico es el resultado de acuerdos logrados dentro de una comunidad de especialistas acerca de un determinado asunto. Sobre ese asunto, esos especialistas están en condiciones de elaborar argumentos y dar razones. Las razones que se dan respecto del estado del mundo y de las cosas son expuestas y confrontadas socialmente y todo lo que se puede hacer es creer mas en unas que en otras según sean más o menos convincentes.

Esto significa que el conocimiento no es el resultado de un esfuerzo metodológico determinado (o no es solamente eso), ni tampoco una cuestión de estar "en contacto directo" con aquello que hay que conocer. El conocimiento es más bien una cuestión de acuerdo e intercambio social acerca de respuestas que resultan unas más satisfactorias que otras, ante la emergencia de determinados interrogantes o problemas.

Pero entonces, cualquiera puede objetar: Bueno, pero si el conocimiento es solamente acuerdo entre los miembros de una determinada comunidad, quiere decir que no hay certeza ni objetividad posibles. En efecto, como ya hemos dicho, la ciencia misma puede ser entendida como un acuerdo (un acuerdo más o menos eficaz), que, a los efectos de entender "la realidad" en algunos de sus aspectos, ha dado buenos resultados.

En suma, el conocimiento es más una cuestión de practica social que de fundamentos epistemológicos. No hay certeza (ni necesidad de buscarla) en el conocimiento. Solo es posible lograr acuerdos globales sobre el modo de ser de los hechos o estados del mundo.

Por todas estas razones, los filósofos que se enrolan detrás de esta propuesta filosófica sostienen que:
a) Parece más propicio hablar de creencias que de conocimientos. Una creencia es un estado del sujeto que debe justificarse por razones y eso es todo lo más que se puede hacer acerca de nuestra relación con las representaciones del mundo y de los fenómenos en general.

b) Las personas acceden a creencias socialmente provisionales y mudables. Respecto de "la realidad" creemos en la forma como es "conversada" intersubjetivamente, dentro de un determinado ámbito (la ciencia, por ejemplo), en un período histórico determinado.

c) Las creencias no son ni verdaderas ni falsas en el sentido de correspondientes con una realidad externa o interna al sujeto, sino que son más o menos aceptables en virtud del acuerdo global social que hay sobre ellas y de la eficacia que muestran a la hora de resolver problemas.

Desde esta perspectiva, eso que llamamos conocimiento es, antes que una pretensión de verdad omniabarcativa y omnicomprensiva, una representación contingente y comunicable que nos invita a adoptar una actitud más humilde y provisional: la de pensar que estamos instalados en diversos mundos de creencias (y la ciencia es sólo uno de esos mundos) más o menos estables, y no en un solo mundo de conocimiento definitivo y acabado.